KATHY REICHS
VIAGGIO FATALE
(Fatal Voyage, 2001)
Dedicato con grandissimo orgoglio a:
Kerry Elisabeth Reichs, J.D., M.P.P., Duke University, Classe 2000
Courtney Anne Reichs, B.A., University of Georgia, Classe 2000
Brendan Christopher Reichs, B.A. cum laude, Wake Forest University, Classe 2000.
Hip hip urrà!
Ringraziamenti
Come sempre, devo i miei più sentiti ringraziamenti a molte persone.
A Ira J. Stimson e al capitano in pensione John Gallagher per i suggerimenti sulla progettazione degli aeromobili e sulle indagini relative agli incidenti. A Hughes Cicoine, del C.F.E.I., per i consigli sulle indagini relative a incendi ed esplosioni. La tua pazienza è straordinaria.
A Paul Sledzik, del National Museum of Health and Medicine, Armed Forces Institute of Pathology, sulla storia, struttura e operazioni del sistema DMORT; a Frank A. Ciaccio, ministero per la Famiglia e gli Affari sociali, National Transportation Safety Board degli Stati Uniti, per le informazioni relative al DMORT, all'NTSB e al Piano di assistenza per le famiglie.
Ad Arpad Vass, ricercatore presso gli Oak Ridge National Laboratories, per il suo corso accelerato sugli acidi grassi volatili.
All'agente speciale Jim Corcoran, Federal Bureau of Investigation, Charlotte Division, per avermi presentato le attività dell'FBI in North Carolina.
All'investigatore in pensione Ross Trudel, Police de la Communauté Urbaine de Montréal, per le informazioni sugli esplosivi e le norme relative; all'investigatore in pensione Stephen Rudman, Police de la Communauté Urbaine de Montréal, per le precisazioni sui funerali della polizia.
A Janet Levy, University of North Carolina-Charlotte, per avermi illustrato il funzionamento del Dipartimento risorse culturali del North Carolina e per aver risposto alle domande sull'archeologia; a Rachel Bonney, University of North Carolina-Charlotte, e a Barry Hipps, Cherokee Historical Association, per le informazioni sugli indiani cherokee.
A John Butts, direttore dell'Istituto di medicina legale del North Carolina, Michael Sullivan, medico legale della contea di Mecklenburg e Roger Thompson, direttore del Dipartimento di polizia e della Sezione scientifica di Charlotte-Mecklenburg.
A Marilyn Steely, per avermi parlato dell'Hell Fire Club; a Jack C. Morgan Jr., per i chiarimenti su atti di proprietà e mappe catastali; a Irene Bacznsky per l'aiuto sui nomi delle compagnie aeree.
Ad Anne Fletcher, per essermi stata vicina durante la nostra avventura sulle Smoky Mountains.
Un ringraziamento speciale va a tutti gli abitanti di Bryson City, nel North Carolina, e in particolare a Faye Bumgarner, Beverly Means e Donna Rowland della Bryson City Library; a Ruth Anne Sitton e Bess Ledford del catasto della contea di Swain; a Linda Cable, amministratore della contea di Swain; a Susan Cutshaw e Dick Schaddelee della Camera di commercio della contea di Swain; a Monica Brown, Marty Martin e Misty Brooks del Fryemont Inn.
Ringrazio molto sentitamente anche il Chief Deputyjackie Fortner, del Dipartimento dello sceriffo della contea di Swain.
Merci a M. Yves St. Marie, André Lauzon e ai miei colleghi presso il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale; al rettore James Woodward della University of North Carolina-Charlotte. Apprezzo molto il vostro continuo sostegno.
A Paul Reichs per i preziosi commenti al manoscritto.
Ai miei fantastici editor, Susanne Kirk e Lynne Drew.
E, naturalmente, al mio miracoloso agente Jennifer Rudolph Walsh.
Le mie storie non potrebbero essere ciò che sono senza l'aiuto di amici e colleghi. Li ringrazio tutti. Come sempre, la responsabilità di eventuali errori è solo mia.
1
Fissai la donna che volava tra gli alberi. Testa in avanti, mento sollevato, braccia indietro, come la piccola dea cromata sul cofano delle Rolls Royce. Ma la signora era nuda, e il suo corpo finiva all'altezza della vita. Rami e foglie sporchi di sangue imprigionavano il suo busto senza vita.
Abbassai gli occhi e mi guardai intorno. A parte la stradina coperta di ghiaia dove avevo parcheggiato, non vedevo altro che foresta, una distesa di pini punteggiata di rare latifoglie, simili a corone funebri che salutavano la morte dell'estate con i rossi, gli arancioni e i gialli del loro fogliame.
All'inizio di ottobre a Charlotte faceva caldo, mentre a quelle altitudini la temperatura era gradevole, anche se presto sarebbe arrivato il freddo. Presi una giacca a vento dal sedile posteriore e rimasi immobile ad ascoltare.
Uccelli. Vento. Andirivieni di piccoli animali. In lontananza, un uomo chiamava un altro uomo. Una risposta soffocata.
Legai il giubbotto in vita, chiusi l'automobile e mi incamminai verso le voci calpestando foglie secche e aghi di pino.
Non avevo fatto più di dieci metri quando mi imbattei in una figura appoggiata a una pietra coperta di muschio, le ginocchia flesse contro il petto, un computer portatile accanto. Non aveva le braccia.
Abbandonata sul computer, una faccia, i denti ingabbiati dai fili dell'apparecchio ortodontico, un sopracciglio forato da un anellino d'oro. Gli occhi spalancati e le pupille dilatate avevano fissato su quel viso l'espressione del terrore. Sentii un tremore sotto la lingua e mi allontanai rapidamente.
Qualche metro più avanti trovai una gamba, il piede ancora chiuso negli scarponi da trekking. L'arto era stato mozzato all'altezza dell'anca, e mi chiesi se per caso appartenesse alla signora Rolls Royce.
Oltre la gamba, due uomini, uno accanto all'altro, le cinture di sicurezza ancora allacciate, il collo coperto di chiazze rosse. Uno dei due aveva le gambe accavallate, come se stesse leggendo un giornale.
Mi inoltrai nella foresta, di tanto in tanto attraversata da grida sconnesse portate fino a me dai capricci del vento. Continuai a camminare spostando rami e scavalcando rocce e tronchi abbattuti.
Disseminati tra gli alberi, bagagli e parti metalliche. Gran parte delle valigie si erano aperte e il loro contenuto giaceva sparpagliato ovunque. Vestiti, arricciacapelli e rasoi elettrici si mescolavano a flaconi di crema per il corpo, di shampoo, di dopobarba e di profumo. Da un bagaglio a mano erano fuoriuscite decine di mini articoli da toilette rubacchiati negli hotel. L'odore di prodotti di bellezza e di carburante si mischiava al profumo dei pini e dell'aria di montagna. E a un vago odore di fumo che arrivava da lontano.
Mi trovavo sul fondo di una stretta vallata coperta da una fitta coltre di vegetazione e penetrata da pochi e incerti raggi di sole. Tra gli alberi la temperatura era fresca, eppure il sudore mi imperlava la fronte e mi incollava gli abiti al corpo. Inciampai in uno zaino e caddi in avanti, strappandomi una manica su un ramo spezzato dalla pioggia di rottami.
Rimasi a terra per qualche secondo, le mani tremanti, il respiro che usciva a singhiozzo. Nonostante fossi ormai allenata a nascondere le emozioni, mi sentii assalire dalla disperazione.
Quanta morte. Mio Dio, quanta morte avrei trovato in quel luogo?
Chiusi gli occhi, ripresi il controllo e mi alzai in piedi.
Dopo un'eternità, superato un tronco marcio e aggirata una macchia di rododendri, mi fermai per cercare di orientarmi: le voci che avevo sentito in lontananza, infatti, non parevano affatto più vicine. Il lamento smorzato di una sirena mi disse che a est, in qualche punto della montagna, erano in corso le operazioni di salvataggio.
È ora di chiedere indicazioni, Brennan.
Ma non c'era tempo per fare domande. In genere i primi che accorrono sul luogo di un incidente aereo o di altre sciagure, nonostante le lodevoli intenzioni, sono purtroppo impreparati ad affrontare fatalità di vaste proporzioni. Quando mi era stato richiesto di raggiungere al più presto il luogo del disastro, ero in viaggio da Charlotte a Knoxville, lungo il confine di Stato. Ero uscita dalla I-40 e rientrata in direzione opposta, avevo tagliato verso Waynesville in direzione sud e poi a ovest verso Bryson City, un paesino del North Carolina a circa duecentottanta chilometri a ovest di Charlotte, ottanta chilometri a est del Tennessee e ottanta chilometri a nord della Georgia. Avevo seguito la striscia d'asfalto delle provinciali fin dove la manutenzione dello Stato non arrivava più, e poi avevo proseguito sulla ghiaia fino a una stradina della guardia forestale che si inerpicava sulle montagne.
Pur avendo ricevuto istruzioni precise, mi era venuto il sospetto che dovesse esistere una via migliore, magari un sentiero per il trasporto della legna, che permettesse di avvicinarsi più facilmente alla vallata adiacente. Avevo valutato se tornare o meno all'auto, ma poi avevo deciso di proseguire. Forse anche chi mi aveva preceduta aveva dovuto fare un po' di trekking. Del resto, quando avevo parcheggiato la macchina, avevo avuto l'impressione che la strada non proseguisse oltre.
Dopo un'estenuante scalata, mi aggrappai con un ultimo sforzo al tronco di un abete di Douglas, puntai un piede e cercai di raggiungere la sommità del pendio. Mentre mi allungavo, mi trovai faccia a faccia con gli occhi di una specie di bambola di pezza che penzolava a testa in giù con i vestiti impigliati tra i rami più bassi dell'albero.
Mi balenò in mente l'immagine di una bambola simile con cui mia figlia giocava da piccola, e d'istinto feci il gesto di afferrare quella che avevo davanti.
Ferma!
Abbassai il braccio, consapevole del fatto che prima di essere rimosso ogni reperto doveva essere mappato e registrato. Solo a quel punto il triste memento poteva essere consegnato a qualcuno.
Dalla nuova posizione individuai distintamente quello che con tutta probabilità doveva essere il sito dell'urto principale. Vidi un motore, semisepolto da un cumulo di terra e rottami, e quelli che sembravano i tronconi di un'ala. Una porzione di fusoliera era completamente priva della parte inferiore, come la figura di un manuale per l'assemblaggio dei modellini. Attraverso gli oblò vidi i sedili, alcuni occupati, molti vuoti.
Il paesaggio, disseminato di corpi e di rottami, ricordava una discarica coperta di rifiuti. Dal punto in cui mi trovavo, i brandelli di carne coperti di pelle apparivano incredibilmente pallidi contro lo sfondo di sottobosco, viscere e rottami di aereo da cui erano circondati. Dagli alberi penzolavano oggetti di ogni genere, per lo più intrappolati tra rami e foglie. Tessuti. Cavi. Lastre di metallo. Pannelli per isolanti. Plastica stampata.
I soccorsi più vicini erano già arrivati e stavano provvedendo a delimitare il sito e a cercare eventuali superstiti. Alcune persone si muovevano tra gli alberi, altre chiudevano con il nastro di plastica la zona coperta di rottami. Indossavano giubbotti gialli con la scritta DIPARTIMENTO DELLO SCERIFFO - CONTEA DI SWAIN stampata sulla schiena. Altre ancora vagavano sole o aspettavano riunite in capannelli, fumando, chiacchierando, fissando impotenti il disastro.
In lontananza, notai provenire dal folto della foresta dei lampi di luce rossa, blu e gialla, che probabilmente indicavano la strada di accesso che io non avevo trovato. Immaginai le volanti della polizia, i furgoni dei vigili del fuoco, i camion di soccorso, le ambulanze e i mezzi privati dei volontari che l'indomani mattina avrebbero intasato quella strada.
Il vento girò e l'odore di fumo si fece più intenso. Mi voltai e vidi fluttuare sopra di me una sottile piuma nera. Lo stomaco mi si strinse: ormai ero abbastanza vicina per sentire insieme a quello acre e pungente del fumo anche un altro odore.
Sono un'antropologa forense e occuparmi di morti violente è il mio mestiere. Le centinaia di vittime di incendi che ho esaminato per conto di coroner e medici legali mi hanno reso molto familiare il puzzo acre della carne carbonizzata. Non lontano da lì, qualcuno stava bruciando.
Deglutii e mi concentrai nuovamente sulle operazioni di soccorso. Alcune tra le persone ferme tra gli alberi avevano cominciato a spostarsi da un punto all'altro del sito. Osservai un vicesceriffo chinarsi e ispezionare i detriti che aveva ai piedi. Quando si rialzò un oggetto gli lampeggiò nella mano sinistra. Un altro vice aveva cominciato ad ammassare i rottami.
«Merda!»
Cominciai a scendere lungo l'altro versante della montagna, reggendomi agli arbusti e zigzagando tra alberi e massi per mantenere l'equilibrio. La discesa era ripida e una scivolata avrebbe potuto trasformarsi in un rovinoso capitombolo.
A dieci metri dalla fine del pendio, misi il piede su una lastra di metallo che slittò e mi mandò a gambe all'aria, come un amante dello snowboard impegnato in una spettacolare caduta. Atterrai malamente e rotolando e scivolando mi trascinai dietro una valanga di sassolini, pigne, rami e foglie.
Tentai di fermarmi allungando la mano in cerca di appigli, ma prima di riuscire a trovare qualcosa di solido da afferrare, mi scorticai il palmo e mi spezzai tutte le unghie. Il mio ruzzolone si interruppe di colpo, e il polso subì un forte strattone a causa della brusca fermata.
Rimasi immobile per qualche secondo, poi rotolai sulla schiena, tirai con entrambe le mani e riuscii a mettermi seduta. Senza mollare la presa, guardai in alto.
L'oggetto a cui mi ero aggrappata era una lunga sbarra di metallo piegata ad angolo retto che sporgeva da una roccia all'altezza dei miei fianchi e finiva su un albero troncato, un metro più in alto. Puntai i piedi, controllai la tenuta, e faticosamente mi rialzai. Dopo essermi pulita le mani insanguinate sui pantaloni, mi legai nuovamente la giacca a vento in vita e proseguii fino alla fine della discesa.
Arrivata in fondo, rallentai il passo. La terra non mi sembrava affatto ferma, ma almeno la forza di gravita era dalla mia parte. Camminai fino alla zona delimitata, sollevai il nastro di plastica e sgusciai di sotto.
«Ehi, signora. Dove va così di fretta?»
Mi fermai e mi voltai. L'uomo che aveva parlato indossava un giubbotto con la scritta DIPARTIMENTO DELLO SCERIFFO - CONTEA DI SWAIN.
«Lavoro per il DMORT.»
«Che diavolo è questo DMORT?» chiese, burbero.
«Lo sceriffo è qui?»
«Chi lo vuole?» L'espressione del vice era dura, la bocca tesa in una linea sottile. Il berretto arancione gli rimase calcato sugli occhi.
«La dottoressa Temperance Brennan.»
«Qui non c'è più bisogno di dottori.»
«Sono qui per identificare le vittime.»
«Può dimostrarlo?»
Nei disastri di massa ogni agenzia governativa ha responsabilità specifiche. L'OEP, Office of Emergency Preparedness, cioè il ministero per il Pronto Intervento nelle situazioni di emergenza, gestisce e dirige l'NDMS, National Disaster Medical System, il coordinamento medico per i disastri nazionali, che si occupa di fornire cure e assistenza sanitaria, e nel caso di incidenti di vasta entità, anche un servizio di identificazione delle vittime.
Per raggiungere il suo scopo, l'NDMS ha creato i sistemi del DMORT, Disaster Mortuary Operational Response Team, la Squadra operativa di assistenza mortuaria, e del DMAT, Disaster Medical Assistance Team, la Squadra operativa di assistenza sanitaria. Quando un incidente viene dichiarato ufficialmente disastro di massa, il DMAT si occupa delle necessità dei vivi, mentre il DMORT si occupa dei morti.
Mi frugai in tasca e mostrai il mio tesserino dell'NDMS.
Il vice studiò il documento e con un cenno della testa mi invitò a proseguire in direzione della fusoliera.
«Lo sceriffo è con i comandanti dei vigili del fuoco.» La voce ebbe un tremito e lui si passò una mano davanti alla bocca. Poi abbassò lo sguardo e si allontanò, a disagio per aver lasciato trapelare la sua emozione.
Il comportamento del vice non mi sorprese. Non c'è poliziotto o agente dei soccorsi, per quanto forte e professionale, per quanto addestrato ed esperto, che arrivi psicologicamente preparato alla sua prima catastrofe.
Catastrofi. Così il Consiglio per la sicurezza dei trasporti nazionali, il National Transportation Safety Board, o NTSB, chiamava questi incidenti. Non ero sicura di quali fossero i requisiti essenziali di una catastrofe, ma avevo già lavorato in occasione di altri disastri e di una cosa ero certa: erano scenari da orrore. E nonostante l'esperienza, nemmeno io potevo dirmi veramente preparata; perciò non mi fu difficile capire l'angoscia del poliziotto. Io avevo solo imparato a dissimularla.
Mentre mi avvicinavo alla fusoliera, superai un vicesceriffo che stava coprendo un cadavere.
«Non lo copra» ordinai.
«Come?»
«Tolga la coperta.»
«E chi lo dice?»
Mostrai di nuovo il mio tesserino.
«Ma sono all'aria aperta.» La sua voce era inespressiva, come una registrazione.
«Tutto deve rimanere così com'è.»
«Bisogna fare qualcosa. Presto sarà buio. Gli orsi cominceranno a fiutare queste...» cercò la parola giusta «... queste persone.»
Avevo già visto in passato che cosa è in grado di fare a un cadavere la specie Ursus e condivisi le preoccupazioni dell'uomo. Ciò nonostante dovetti fermarlo.
«Prima di poter toccare qualcosa, tutto deve essere fotografato e registrato.»
L'uomo sollevò la coperta con entrambe le mani, sul viso un'espressione addolorata. Sapevo esattamente che cosa stava provando. La necessità di fare qualcosa e l'incertezza di che cosa fare. Il senso di impotenza che andava a sommarsi alla tragedia che ci stava travolgendo.
«Per favore, faccia circolare la voce che non bisogna toccare niente. Intanto cercate eventuali superstiti.»
«Lei ha voglia di scherzare.» Comprese in uno sguardo la zona circostante. «Nessuno può essere sopravvissuto a tutto questo.»
«Ma se per puro caso qualcuno fosse ancora vivo, sicuramente avrà molti più motivi di temere gli orsi di questo tizio.» Indicai il cadavere ai suoi piedi.
«E i lupi» aggiunse il vice con voce da oltretomba.
«Come si chiama lo sceriffo?»
«Crowe.»
«Chi è?»
L'uomo mi indicò con uno sguardo il gruppo di individui vicini alla fusoliera.
«Quella persona alta con il giubbotto verde.»
Lo lasciai e rapidamente raggiunsi Crowe.
Lo sceriffo stava studiando una cartina insieme a cinque o sei vigili del fuoco volontarii le cui uniformi indicavano le diverse giurisdizioni di provenienza. Anche con la testa china, Crowe era il più alto del gruppo. Sotto il giubbotto, le spalle apparivano larghe e forti, a indicare esercizio fisico regolare. Sperai di non avere mai un'incomprensione con mister Sceriffo Muscoli Virili.
Quando fui abbastanza vicina, i vigili del fuoco si interruppero e guardarono verso di me.
«Lo sceriffo Crowe?»
Crowe si voltò, e subito mi resi conto che «virile» non era decisamente l'aggettivo giusto per lei.
Era una donna dagli zigomi alti e larghi, la pelle color cannella. Una chioma di ricci fulvi raccolta a fatica sotto il berretto. Ma quello che attirò la mia attenzione furono gli occhi. Le iridi avevano lo stesso colore delle vecchie bottiglie di Coca-Cola. Esaltato da ciglia e sopracciglia ramate e dalla pelle color biscotto, quel verde chiarissimo era straordinario. Immaginai che fosse sulla quarantina.
«Lei è?» La voce era profonda e seria, e indicava che la sua proprietaria non era in vena di stupidaggini.
«Dottoressa Temperance Brennan.»
«Qual è il motivo per cui si trova qui, dottoressa?»
«Lavoro per il DMORT.»
Di nuovo il tesserino. Lei lo studiò e me lo restituì.
«Ho sentito la notizia dell'incidente aereo mentre andavo in macchina da Charlotte a Knoxville. Quando ho chiamato Earl Bliss, il coordinatore della squadra della Zona Quattro, lui mi ha chiesto di venire qui, per vedere se avevate bisogno di qualcosa.»
Una versione un po' più diplomatica delle vere parole di Earl.
La donna rimase in silenzio per qualche secondo. Poi si voltò verso i vigili del fuoco, disse qualche parola e gli uomini si allontanarono. Lei si avvicinò e mi tese la mano. Aveva una stretta micidiale.
«Lucy Crowe.»
«Mi chiami pure Tempe.»
Divaricò le gambe, incrociò le braccia e mi guardò con quei suoi occhi color vetro di Coca-Cola.
«Non credo proprio che sia rimasta qualche povera anima che abbia bisogno di assistenza medica.»
«Sono un'antropologa forense, non un medico. Avete già cercato eventuali superstiti?»
Lei annuì sollevando semplicemente la testa verso l'alto una sola volta, come avevo visto fare in India. «Credevo che una cosa del genere fosse roba da medici legali.»
«Qui ce n'è per tutti, a quanto pare. Quelli dell'NTSB sono già qui?» Sapevo che in genere il National Transportation Safety Board era tempestivo.
«Stanno arrivando. Sono stata contattata da tutte le agenzie del pianeta. NTSB, FBI, ATF, ovvero la Divisione alcolici, tabacco e armi da fuoco, Croce Rossa, Federal Aviation Administration, guardia forestale, Tennessee Valley Authority e ministero degli Interni. Non mi sorprenderei di vedere il papa in persona scendere da Wolf Knob in sella a un cavallo.»
«Anche il ministero degli Interni e la Tennessee Valley Authority?»
«La maggior parte di questa contea appartiene ai federali, circa l'ottantacinque per cento come foresta demaniale, e il cinque per cento come parco naturale.» Sollevò la mano all'altezza delle spalle e disegnò un cerchio in senso orario. «Siamo all'interno di una zona chiamata Big Laurei. Bryson City è a nord-ovest, oltre c'è il Parco nazionale delle Great Smoky Mountains. La Riserva indiana cherokee si trova a nord, la Nantahala Game Land e la National Forest a sud.»
Mi tappai il naso e deglutii per cercare di liberarmi le orecchie.
«A quanti metri siamo qui?»
«Circa milletrecento.»
«Non voglio insegnarle il suo mestiere, sceriffo, ma ci sono alcune persone che forse sarebbe il caso di tenere...»
«Sì, assicuratori e avvocati. Lucy Crowe vivrà anche sulle montagne, ma almeno un paio di volte è scesa a valle.»
Non avevo dubbi. Ed ero anche sicura che Lucy Crowe non si faceva prendere per il naso da nessuno.
«Forse è il caso di tenere lontana anche la stampa.»
«Forse.»
«Quanto al medico legale, lei ha ragione, sceriffo. Arriverà anche lui. Ma in caso di catastrofi, il piano di emergenza del North Carolina prevede il coinvolgimento del DMORT.»
Udii un'esplosione in lontananza, seguita da una serie di ordini gridati. Crowe si tolse il berretto e si pulì la fronte con la manica.
«Quanti incendi stanno ancora bruciando?»
«Quattro. Li stiamo spegnendo. Ma è molto rischioso. La montagna quest'anno è maledettamente secca.» Si sbatté il berretto contro la coscia, muscolosa quanto le spalle.
«Sono sicura che i suoi uomini stanno facendo del loro meglio. Hanno già delimitato una zona di sicurezza e stanno domando gli incendi. Se non ci sono superstiti, non c'è molto altro da fare.»
«In realtà non sono addestrati per questo tipo di lavoro.»
Oltre la spalla di Crowe vidi un vecchio con il giubbotto dei Corpi volontari di Cherokee curiosare tra una montagna di rottami. Optai per il tatto.
«Sono sicura che lei ha già detto ai suoi uomini che le scene degli incidenti devono essere trattate come le scene dei delitti. Non bisogna toccare niente.»
Mi rispose con il suo particolare cenno affermativo.
«Probabilmente si sentono un po' frustrati perché pur volendo rendersi utili, di preciso non sanno cosa fare. Una rinfrescata di memoria non farà male.»
Le indicai il volontario.
Crowe si lasciò sfuggire un'imprecazione e puntò verso il curioso con una falcata da olimpionico. L'uomo se ne andò e un attimo dopo lo sceriffo era già di ritorno.
«Non è mai facile» dissi io. «Quando arriverà l'NTBS prenderà il controllo dell'intera operazione.»
«Già.»
In quel momento il cellulare dello sceriffo trillò. Attesi che rispondesse.
«Ci mancavano solo loro» disse agganciandosi l'apparecchio alla cintura. «Charles Hanover, direttore generale della TransSouth Air.»
Era una compagnia con cui non avevo mai volato, ma che avevo già sentito nominare. Si trattava di un piccolo vettore regionale che collegava con Washington D.C. una decina di città sparse tra North e South Carolina, la Georgia e il Tennessee.
«Era un aereo di questa compagnia?»
«Il volo 228 da Atlanta per Washington era in ritardo. Ha atteso sulla pista per quaranta minuti e poi è decollato alle 12.45. Alle 13.07 l'aereo volava a circa venticinquemila piedi quando è scomparso dallo schermo radar. Il mio ufficio ha ricevuto la chiamata del Servizio di soccorso intorno alle 14.00.»
«Quante persone a bordo?»
«L'aereo era un Fokker-100 e portava ottantadue passeggeri più sei membri dell'equipaggio. Ma il peggio non è questo.»
E le parole che seguirono anticiparono tutto l'orrore dei giorni successivi.
2
«La squadra di calcio della University of Georgia?»
Crowe annuì. «Hanover ha detto che la squadra femminile e quella maschile stavano andando a giocare una partita dalle parti di Washington.»
«Gesù.» Alcune immagini si accesero come lampadine. Una gamba mozzata. Denti con apparecchio. Una ragazza impigliata in un albero.
Un'improvvisa fitta di paura.
Mia figlia Katy studiava in Virginia, ma spesso andava a trovare la sua migliore amica ad Athens, sede della University of Georgia. Lija beneficiava di una borsa di studio per meriti sportivi. Per caso giocava a calcio?
Dio santo. La mente si mise a correre. Katy mi aveva forse parlato di un viaggio? Quando aveva le vacanze di fine semestre? Resistetti all'impulso di attaccarmi al cellulare.
«Quanti studenti?»
«Quarantadue passeggeri hanno prenotato tramite l'università. Hanover pensa che siano quasi tutti studenti. Oltre agli atleti, c'erano allenatori, massaggiatori, fidanzate e fidanzati. Qualche tifoso.» Si passò una mano davanti alla bocca. «Il solito.»
Il solito. Il pensiero di tante giovani vite perdute per sempre stringeva il cuore. Poi mi venne un altro pensiero.
«Questa faccenda si trasformerà in un delirio mediatico.»
«La prima preoccupazione di Hanover è stata proprio questa.» La voce di Crowe era venata di sarcasmo.
«Quando arriveranno quelli dell'NTSB, si occuperanno della stampa.»
E dei familiari, ho evitato di aggiungere. Anche loro sarebbero arrivati qui, lamentandosi e cercando conforto, alcuni con gli occhi pieni di terrore, altri pretendendo risposte immediate, molti tentando di mascherare con l'aggressività il dolore insostenibile.
In quel momento si udì un rumore di pale di elicottero e subito vedemmo il mezzo avvicinarsi volando radente sopra gli alberi. Accanto al pilota notai una figura familiare e un'altra sagoma dietro di lei. L'elicottero fece due giri e poi puntò nella direzione opposta al punto in cui pensavo si trovasse la strada.
«Dove stanno andando?»
«E che ne so? So solo che noi qui non siamo attrezzati per far atterrare un elicottero.» Crowe abbassò lo sguardo e si sistemò il berretto, portando indietro i riccioli ramati con un gesto della mano.
«Un caffè?»
Mezz'ora dopo il direttore dell'Istituto di medicina legale dello Stato del North Carolina raggiunse il sito, seguito dal vicegovernatore. Il primo indossava la semplice divisa da sopralluogo, scarponi e pantaloni da lavoro, il secondo un completo da manager.
Li osservai farsi strada tra i rottami, il patologo si guardava intorno per valutare la situazione, il politico con lo sguardo fisso a terra e molto sulle sue, come se un contatto con il mondo circostante potesse trasformarlo da osservatore a partecipante. A metà strada si fermarono e il medico legale scambiò qualche parola con un vicesceriffo. L'uomo indicò nella nostra direzione, e la coppia si incamminò verso di noi.
«Porca miseria. Una splendida occasione per comparire sui giornali.» Crowe lo disse con lo stesso sarcasmo riservato a Charles Hanover, il direttore generale della TransSouth Air.
Quindi accartocciò il suo bicchierino di plastica e lo gettò in una borsa termica. Le passai il mio, incuriosita dall'intensità della sua disapprovazione. Non era d'accordo con la politica del vicegovernatore, o tra Lucy Crowe e Parker Davenport c'era qualcosa di personale?
Quando i due uomini si furono avvicinati, il medico legale ci mostrò il tesserino. Crowe lo respinse con un gesto della mano.
«Non ce n'è bisogno, dottore. La conosco bene.»
Anch'io lo conoscevo, dato che lavoravo con Larke Tyrell sin dalla metà degli anni Ottanta, quando era stato nominato direttore dell'Istituto di medicina legale del North Carolina. Larke, uomo cinico e autoritario, era anche uno dei migliori patologi del Paese. Lavorando con un budget limitatissimo e nel totale disinteresse legislativo, aveva ereditato un dipartimento sommerso dal caos e l'aveva trasformato in uno dei più efficienti sistemi investigativi del Nord America.
Ai tempi della nomina di Larke avevo appena superato l'esame di abilitazione dell'American Board of Forensic Anthropology e la mia carriera forense muoveva i primi passi. Ci eravamo conosciuti mentre lavoravo per l'SBI, lo State Bureau of Investigation del North Carolina, che mi aveva incaricata di rimettere insieme e identificare i cadaveri di due spacciatori assassinati e smembrati da una banda di biker fuorilegge. Ero stata uno dei primi specialisti a cui si era rivolto Larke. Da allora non ho più smesso di occuparmi dei morti scheletrizzati, decomposti, mummificati, bruciati e mutilati del North Carolina.
Il vicegovernatore mi tese una mano, mentre con l'altra si premeva un fazzoletto sulla bocca. La sua faccia aveva il colore del ventre di una rana. Ci stringemmo la mano in perfetto silenzio.
«Sono contento di trovarti da queste parti, Tempe» disse Larke, stritolandomi le dita tra le sue. Questa pratica della stretta di mano forse andava ripensata.
Il gergo di Larke risaliva ai tempi della guerra del Vietnam, mentre il suo accento era pura cadenza della Carolina. Larke era cresciuto in una famiglia di marine, e prima di scegliere gli studi di medicina aveva fatto un paio di anni di ferma.
«Quando riparti per il Nord?»
«La prossima settimana iniziano le vacanze del semestre autunnale» risposi.
Larke socchiuse gli occhi e diede un'altra occhiata al sito.
«Ho paura che quest'autunno il Québec dovrà fare a meno della sua antropologa.»
Una decina di anni prima avevo partecipato a uno scambio tra la mia università e la McGill University di Montréal. Mentre mi trovavo in quella città avevo temporaneamente collaborato come consulente con il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, l'Istituto centrale di medicina legale e di discipline forensi del Québec. Alla fine del mio anno di contratto, riconoscendo la necessità di avere nel suo staff un antropologo forense, il governo provinciale mi aveva accordato un finanziamento, attrezzato un laboratorio e offerto un contratto di consulenza a tempo indeterminato.
Da allora avevo cominciato a fare la pendolare tra il North Carolina e il Québec, insegnando antropologia fisica alla University of North Carolina di Charlotte e collaborando come consulente con entrambe le giurisdizioni. E dato che in genere i miei casi riguardano le morti non recenti, l'accordo aveva sempre funzionato. Anche se restava inteso che mi sarei resa immediatamente disponibile in caso di emergenze e per le deposizioni in tribunale.
Un disastro aereo rientrava decisamente fra le situazioni di emergenza. Perciò assicurai a Larke che avrei annullato il mio viaggio a Montréal previsto per ottobre.
«Come hai fatto ad arrivare qui così presto?»
Ancora una volta raccontai del mio viaggio a Knoxville e della telefonata ricevuta dal capo del DMORT.
«Ho già parlato con Earl. Manderà una squadra quassù domani mattina.» Larke si rivolse a Crowe con un cenno della testa. «I ragazzi dell'NTSB caleranno qui in massa entro stasera. Fino a quel momento non si deve toccare nulla.»
«Ho già dato disposizioni» disse Crowe. «Questo posto è praticamente inaccessibile, ma aumenterò ugualmente gli agenti di guardia. Il problema più grosso probabilmente saranno gli animali. Soprattutto quando questi cadaveri cominceranno a decomporsi.»
Il vicegovernatore produsse uno strano rumore, si voltò e corse via. Lo guardai appoggiarsi a un albero, chinarsi e vomitare.
Larke rivolse un'occhiata franca e virile a Crowe e a me.
«Voi due, care signore, state rendendo infinitamente più facile un lavoro di per sé molto difficile. Le parole non possono esprimere quanto apprezzi la vostra professionalità.»
Sguardo su Crowe.
«Sceriffo, lei si occupi di mantenere le cose in ordine.»
Sguardo su di me.
«Tempe, tu vai pure alla tua conferenza a Knoxville. Poi procurati quel che ti serve e torna domani. Starai qui per un po', perciò avverti l'università. Ti terremo una branda libera.»
Quindici minuti dopo un vicesceriffo mi aveva accompagnata fino alla mia auto. Avevo ragione circa l'esistenza di un percorso migliore. Più o meno quattrocento metri oltre il punto dove avevo parcheggiato, dalla strada della guardia forestale partiva una via più stretta di terra battuta. Lo sterrato, utilizzato in passato per il trasporto della legna, percorreva tortuoso il fianco della montagna e permetteva di raggiungere il sito principale del disastro dopo un centinaio di metri.
Una lunga fila di veicoli fiancheggiava la stradina su entrambi i lati; infatti durante la discesa avevamo incrociato diversi gruppi di nuovi arrivati. Entro l'alba, le strade provinciali e quelle forestali sarebbero state completamente intasate.
Mi sedetti al volante e mi attaccai al cellulare. Morto.
Svoltai oltre una curva e imboccai la provinciale. Entrata nella statale 74, provai di nuovo. Il segnale era tornato, perciò composi il numero di Katy. Quattro squilli e poi la voce della segreteria telefonica. Inquieta, lasciai un messaggio, dopo di che ripetei nella mente la lezione come-non-essere-una-madre-stupida-e-apprensiva. Nelle ore che seguirono cercai di concentrarmi sulla mia presentazione, scacciando ogni pensiero sul massacro che mi ero lasciata alle spalle e sull'orrore che avrei dovuto affrontare nei giorni seguenti. Niente da fare. Immagini di facce sospese e di arti mozzati continuavano a disintegrare la mia concentrazione.
Provai con la radio. Su tutte le frequenze si sentivano solo resoconti del disastro. Gli speaker riferivano della morte dei giovani atleti e in tono grave facevano supposizioni sulle possibili cause. Poiché le cattive condizioni atmosferiche non sembravano fornire una spiegazione plausibile, le ipotesi favorite erano il sabotaggio e il guasto meccanico.
Mentre camminavo dietro il vice di Crowe, avevo notato una fila di alberi troncati e orientati in direzione opposta al punto della mia entrata. Anche se sapevo che il danno subito dagli alberi indicava la linea di discesa dell'aereo rifiutai di unirmi al coro delle congetture.
Imboccai la I-40, cambiai stazione radiofonica per la centesima volta e mi fermai sul servizio di un giornalista che da un elicottero riferiva di un incendio in un magazzino. Il rumore delle pale mi fece tornare in mente Larke, e mi resi conto che non avevo domandato dove fossero atterrati lui e il vicegovernatore. Archiviai la domanda in fondo alla mente.
Alle nove, riprovai a chiamare Katy.
Ancora nessuna risposta. Ancora la lezione sulla mamma-che-non-vuole-essere-ansiosa.
Arrivata a Knoxville, andai in albergo, mi misi in contatto con chi mi aveva invitata alla conferenza, poi mangiai il pollo che mi ero comprata in un fast food entrando in città.
Telefonai al mio ex marito e gli chiesi assistenza per il mio gatto Birdie. Pete accettò, ma mi avvertì che avrei ricevuto una fattura per trasporto di felino e servizi accessori. Non parlava con Katy da diversi giorni. Dopo avermi impartito una versione ridotta della mia lezione preferita sulla mamma-non-ansiosa, promise di mettersi in contatto con lei.
Dopo di che telefonai a Pierre LaManche, il mio capo al Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, per informarlo che nelle settimane seguenti non sarei andata a Montréal. Lui aveva sentito la notizia del disastro aereo e stava aspettando la mia chiamata. Infine contattai il capo del mio dipartimento all'università di Charlotte.
Esaurite le telefonate di rito, per un'oretta selezionai diapositive e le collocai nell'apposito caricatore circolare, quindi feci una doccia e provai di nuovo a chiamare Katy. Niente.
Lanciai un'occhiata all'orologio. Le undici e quaranta.
Va bene. È uscita per una pizza. Oppure è in biblioteca. Sì, in biblioteca. Avevo usato quella scusa tante di quelle volte quando andavo a scuola.
Mi ci volle molto tempo per riuscire ad addormentarmi.
Il mattino dopo Katy non aveva ancora richiamato e continuava a non rispondere. Provai a chiamare Lija ad Athens. Un'altra voce metallica mi invitò a lasciare un messaggio.
Presi la macchina e raggiunsi l'auditorium dell'unico dipartimento di antropologia d'America ospitato in uno stadio di football, dove presentai uno dei più sconnessi interventi della mia carriera. La persona che introduceva i vari relatori, nel presentarmi aveva citato la mia collaborazione con il DMORT accennando al fatto che avrei lavorato al recupero dei resti del disastro TransSouth. Benché non potessi fornire molti particolari, le domande che seguirono ignorarono quasi del tutto la mia presentazione e si concentrarono sull'incidente. Lo spazio dedicato al dibattito durò all'infinito.
Quando alla fine i presenti sciamarono verso l'uscita, una specie di spaventapasseri in papillon, cardigan e occhialini a mezzaluna che gli dondolavano sul petto puntò dritto al podio. La nostra professione non è molto comune, e poiché le strade di noi antropologi si incrociano spesso durante incontri, seminali e conferenze, ci conosciamo quasi tutti. Avevo incontrato Simon Midkiff in diverse occasioni, e sapevo che se non mi fossi mostrata decisa, quel saluto si sarebbe protratto molto a lungo. Guardando con insistenza l'orologio, raccolsi i miei appunti, li infilai nella borsa e scesi dal podio.
«Come va, Simon?»
«Ottimamente.» Aveva le labbra screpolate e la pelle disidratata e squamosa, come un pesce esposto impietosamente al sole. Il bianco degli occhi - sovrastati da foltissime sopracciglia - era solcato da un reticolo di venuzze.
«Come vanno i tuoi lavori archeologici?»
«Anche quelli ottimamente, grazie. Mi occupo di diversi progetti per il Dipartimento risorse culturali di Raleigh... sai, si deve pur mangiare. Ma più che altro trascorro il mio tempo archiviando ed elaborando dati.» Si lasciò scappare una risatina stridula e si diede un colpetto sulla guancia con la mano. «Pare che nel corso della mia carriera abbia messo insieme una quantità impressionante di dati...»
Simon Midkiff aveva conseguito il dottorato a Oxford, nel 1955 e subito aveva accettato una cattedra a Duke, venendo negli Stati Uniti. Ma intanto la vedette dell'archeologia aveva smesso di pubblicare, perciò dopo sei anni gli avevano revocato l'incarico. Midkiff aveva poi avuto un'altra occasione dalla University of Tennessee, ma dato che anche quella volta non aveva pubblicato niente, aveva di nuovo perso l'incarico.
Non riuscendo più ad avere un'occupazione stabile in nessuna facoltà, per trent'anni Midkiff aveva bazzicato ai margini del mondo accademico accettando incarichi a termine nell'ambito dell'archeologia e insegnando come supplente nei college e nelle università del Tennessee e del North e South Carolina. E in tutto l'ambiente accademico era nota la sua tendenza a effettuare gli scavi dei siti, compilare i previsti documenti e poi non pubblicare le conclusioni.
«Mi piacerebbe poter fare due chiacchiere con te, Simon. Ma ho una fretta terribile.»
«Lo immagino. Davvero una tragedia spaventosa. Tante giovani vite stroncate» disse scuotendo tristemente la testa. «Dov'è avvenuto esattamente il disastro?»
«Nella contea di Swain. Adesso devo proprio andare.» Feci per muovermi, ma Midkiff con un movimento repentino e un sandalo tedesco numero quarantacinque mi bloccò il passo.
«Dov'è la contea di Swain?»
«A sud di Bryson City.»
«Potresti essere un po' più precisa?»
«Non posso darti le coordinate.» Non feci nulla per nascondere la mia irritazione.
«Scusa l'insistenza. Ma sto eseguendo degli scavi nella contea di Swain ed ero preoccupato per eventuali danni al sito. Che egoista.» Risatina imbarazzata. «Scusami.»
In quel momento si avvicinò un docente del dipartimento.
«Posso?» E mi mostrò una Nikon.
«Ma certo.»
Sfoderai un sorriso degno di uno spot pubblicitario.
«È per la newsletter della facoltà. Pare che ai nostri studenti piaccia molto.»
Mi ringraziò per l'intervento e mi augurò buona fortuna per il recupero dei resti. Io lo ringraziai a mia volta per l'ospitalità, mi congedai da lui e da Midkiff e dopo aver preso il raccoglitore delle diapositive uscii rapidamente dall'auditorium.
Prima di lasciare Knoxville, entrai in un negozio di articoli sportivi e comprai scarponi, calzettoni e tre paia di pantaloni da lavoro. Indossai subito la nuova tenuta. Nella farmacia vicina acquistai anche due confezioni di minislip in puro cotone. Non era la mia marca preferita, ma potevano andare. Infilai mutande e pantaloni nella borsa e puntai verso est.
Gli Appalachi nascono nello Stato di Terranova e scendono paralleli lungo la costa orientale degli Stati Uniti fino a dividersi all'altezza di Harpers Ferry nelle due catene delle Blue Ridge e delle Great Smoky Mountains. Tra i rilievi più antichi del pianeta, le Great Smoky raggiungono con il Clingmans Dome, sul confine tra il North Carolina e il Tennessee, un'altitudine di oltre duemila metri.
A meno di un'ora di strada da Knoxville, e dopo aver superato le città di Sevierville, Pigeon Forge e Gatlinburg, a est vidi stagliarsi maestoso il Clingmans Dome e come sempre mi scoprii rapita dalla surreale bellezza di quel luogo. Modellate da millenni di pioggia e di vento, le Great Smoky scendono verso sud in un susseguirsi di picchi e vallate coperte da un lussureggiante mantello di foreste elevate al rango di parco nazionale. Il Nantahala. Il Pigsah. Il Cherokee. Il Parco nazionale delle Great Smoky Mountains. La morbida, vaporosa vegetazione e la coltre fumosa di nubi che le avvolge, e a cui devono il loro nome, crea un'impareggiabile atmosfera. La Terra al suo meglio.
Lo scenario di morte e distruzione aperto in quel mondo di sogno creava un aspro contrasto.
Appena fuori da Cherokee, dalla parte del North Carolina, feci un'altra telefonata a Katy. Pessima idea. Di nuovo la sua voce registrata. Di nuovo un mio messaggio. Chiama la mamma.
Cercai di tenere la mente lontana mille miglia dal compito che mi aspettava. Pensai ai panda dello zoo di Atlanta, al palinsesto autunnale della NBC, al ritiro bagagli dell'aeroporto di Charlotte. Perché ci voleva sempre tanto tempo?
Pensai a Simon Midkiff. Che strano tipo. Quante erano le probabilità che un aereo cadesse proprio sul suo sito?
Ignorai la radio, inserii nel lettore un CD di Kiri Te Kanawa e ascoltai la diva cantare Irving Berlin.
Erano quasi le due quando arrivai sul luogo del disastro. La strada provinciale era chiusa da due volanti, proprio all'altezza dell'incrocio con la forestale. Una guardia dirigeva il traffico indirizzando alcuni motociclisti in vetta alla montagna, ordinando ad altri di tornare indietro. Mostrai il mio tesserino e l'agente cercò il mio nome sul suo elenco.
«Eccola qui, signora. È sulla lista. Parcheggi pure nella zona di accoglienza.»
L'agente si fece da parte e mi infilai nel varco tra le due volanti.
La zona di accoglienza si trovava sull'altro lato della strada, su un terrapieno costruito per ospitare una torretta antincendio. Il fianco della montagna era stato completamente ripulito per aumentare lo spazio interno e il terreno era stato cosparso di ghiaia per proteggerlo dalla pioggia. Era lì che si svolgevano le riunioni operative e che le famiglie ricevevano assistenza in attesa che fosse allestito un centro attrezzato.
Una massa di gente e di veicoli affollava entrambi i lati della strada. Roulotte della Croce Rossa. Unità mobili della televisione con antenne paraboliche. Furgoncini. Pick-up. Un camion per il trasporto di sostanze pericolose. Parcheggiai a fatica la mia Mazda tra una Dodge Durango e una Ford Bronco, presi la mia borsa e zigzagai tra i veicoli fino alla strada asfaltata.
Mentre lasciavo la zona di accoglienza, notai alla base della torretta antincendio un tavolino pieghevole di fronte a una roulotte della Croce Rossa. Una piccola macchina per il caffè scintillava al sole. Stretti tutt'intorno, alcuni familiari delle vittime si abbracciavano e sostenevano a vicenda, chi piangendo, chi chiuso in un rigido silenzio. Molti stringevano bicchierini di plastica, qualcuno parlava al cellulare.
Un prete circolava tra i presenti, confortandoli e stringendo mani. Lo osservai piegarsi per parlare con una donna anziana. Curvo in quella posizione, con la testa pelata e il naso aquilino, ricordava uno degli uccelli necrofagi che una volta avevo visto in Africa orientale. Un paragone immeritato.
Mi venne in mente un altro prete. Un'altra veglia funebre. Il compassionevole inchino del sacerdote che distruggeva ogni mia speranza in una ripresa della nonna. Ricordai l'agonia di quella veglia, e il mio cuore fu vicino a tutte quelle persone accorse a reclamare i loro morti.
Reporter, fonici e cameraman si davano da fare per conquistarsi una buona posizione sul muretto che circondava la zona di accoglienza, tutti alla ricerca dello sfondo migliore per i loro servizi. Come già era successo nel 1999, all'epoca del disastro aereo Swissair a Peggy's Cove, in Nuova Scozia, ero certa che lo scenografico panorama sarebbe stato abbondantemente sfruttato in tutte le parti.
Misi la borsa a tracolla e percorsi un tratto in discesa. Un'altra guardia forestale autorizzò il mio ingresso sullo sterrato per il trasporto della legna, che nella notte era stato trasformato in una stradina a due corsie coperta di ghiaia. Lo imboccai e mi diressi sul luogo del disastro, circondata da una galleria di alberi tagliati di fresco e accompagnata dallo scricchiolio della ghiaia sotto gli scarponi e dal profumo dei pini misto all'odore dei primi stadi di putrefazione.
Le roulotte per la decontaminazione e una fila di gabinetti mobili fiancheggiavano lo sbarramento che impediva l'accesso alla zona principale del sito, mentre un centro operativo era stato istituito all'interno della zona delimitata. Vidi la familiare roulotte dell'NTSB con il generatore e l'antenna parabolica. Accanto, erano stati parcheggiati i camion frigoriferi, e a terra si vedevano già mucchi di sacchi mortuari. Quell'obitorio temporaneo sarebbe stato la zona di raccolta dei resti recuperati prima del loro trasferimento all'obitorio operativo allestito vicino al luogo dell'incidente.
Escavatori, bracci meccanici, camion a cassone ribaltabile, autopompe e volanti della polizia erano ovunque. Una solitaria ambulanza mi disse che l'operazione era stata trasformata da «ricerca e salvataggio» in «ricerca e recupero resti». La sua presenza era ormai motivata solo da eventuali incidenti al personale che lavorava al sito.
All'interno della zona delle ricerche notai Lucy Crowe che parlava con Larke Tyrell.
«Come va?» le chiesi.
«Il mio cellulare non smette un attimo di suonare.» Lucy Crowe sembrava sfinita. «La notte scorsa per poco non lo spegnevo, questo aggeggio infernale.»
Dietro di lei vidi gli operatori con mascherina e tuta da lavoro perlustrare a occhi bassi la vegetazione coperta dai rottami muovendosi lungo linee immaginarie. Di tanto in tanto qualcuno si inginocchiava, osservava un pezzo, poi segnava il punto. Alle loro spalle bandierine rosse, blu e gialle punteggiavano il panorama come spilli colorati sulla cartina di una città.
Altri tecnici in tuta bianca si muovevano confusamente intorno a fusoliera, ali e motore scattando fotografie, prendendo appunti e registrando commenti in minuscoli apparecchi. I berretti blu li identificavano come membri dell'NTSB.
«La banda è al completo» dissi.
«NTSB, FBI, SBI, Federal Aviation Administration, ATF, le telecamere di CBS e ABC. Se hanno una sigla, vuol dire che sono qui. E naturalmente è arrivato anche il direttore generale della TransSouth.»
«Ancora non è niente» disse Larke. «Aspettate un paio di giorni.» Abbassò il guanto in lattice e guardò l'ora.
«Tempe, quasi tutti quelli del DMORT stanno partecipando alla riunione che si tiene all'obitorio operativo. Perciò non ha senso che tu stia qui. Devi andare da loro.»
Feci per obiettare qualcosa, ma Larke mi interruppe.
«Ci andiamo insieme.»
Mentre Larke andava alla decontaminazione, Lucy mi diede le indicazioni per raggiungere il posto. Non era necessario. Mentre risalivo la strada provinciale, avevo già notato un certo familiare andirivieni.
«La caserma dei vigili del fuoco di Alarka si trova a circa tredici chilometri da qui. Una volta era una scuola. Vedrà scivoli e altalene, e le autopompe parcheggiate in un prato accanto alla costruzione.»
Mentre scendevamo alla zona di accoglienza, il medico legale mi informò sugli sviluppi più recenti. La cosa più importante era che l'FBI aveva ricevuto una telefonata anonima che suggeriva la presenza di una bomba a bordo dell'aereo.
«Il nostro bravo cittadino è stato così gentile da condividere l'informazione con la CNN. I media ci stanno sguazzando come topi nel formaggio.»
«Quaranta studenti morti rischiano di essere roba da premio Pulitzer.»
«C'è un'altra cattiva notizia. Quaranta potrebbe essere un numero troppo basso. Pare che l'università avesse prenotato più di cinquanta posti.»
«Hai visto la lista passeggeri?» Quasi non riuscii a formulare la domanda.
«La vedremo adesso alla riunione.»
Una sensazione di gelo mi chiuse la bocca dello stomaco.
«Sissignora» proseguì Larke. «Se non stiamo attenti, la stampa ci mangerà vivi.»
Durante il tragitto, entrai in una zona ricettiva e il cellulare trillò. Frenai di colpo per timore di perdere il segnale.
Il messaggio si sentiva a fatica tra le scariche di elettricità statica.
«Dottoressa Brennan, sono Haley Graham, la compagna di stanza di Katy. Mhm... ho ascoltato i suoi messaggi, quattro mi sembra. E quelli del padre di Katy. Ha chiamato un paio di volte. Comunque... ho sentito di quell'aereo, e...» Scarica. «Ecco... c'è una cosa. Questo fine settimana Katy è andata via, ma io non sono sicura di dove sia andata. So che Lija ha telefonato un paio di volte qualche giorno fa, perciò sono un po' preoccupata perché forse Katy è andata a trovarla. Sicuramente è una stupidaggine. Ma ho pensato di chiamarla ugualmente, per sapere se per caso ha parlato con Katy. Ecco...» Altre scariche. «Comunque... anche se adesso mi sento un po' sciocca, sarei più tranquilla se sapessi dov'è finita Katy. Okay. Ci sentiamo.»
Premetti il tasto per la composizione automatica del numero di Pete. Non aveva parlato con nostra figlia. Composi un altro numero. Ma Lija non rispose.
La sensazione di gelo raggiunse il petto e mi attanagliò lo sterno.
Un pick-up mi invitò a colpi di clacson a non ingombrare la strada.
Continuai a scendere dalla montagna, aspettando e temendo allo stesso tempo la riunione a cui stavo per partecipare, certa della mia prima domanda.
3
Uno dei primi compiti del DMORT in caso di disastri di massa è la creazione di un obitorio operativo il più vicino possibile al luogo della catastrofe. Le strutture preferite in genere sono gli istituti del medico legale o del coroner, ospedali, camere mortuarie, hangar, magazzini e le caserme della guardia nazionale.
Quando arrivai alla caserma dei vigili del fuoco di Alarka, scelta per accogliere i corpi del volo TransSouth 228, il parcheggio principale era già al completo e una fila di automobili attendeva all'ingresso. Mi unii alla coda, che procedeva a passo di lumaca, e presi a guardarmi intorno tamburellando con le dita sul volante.
Il parcheggio secondario era stato riservato ai camion frigoriferi che avrebbero trasportato le vittime. Osservai due donne di mezz'età schermare l'alta palizzata con dei fogli di plastica opaca per prevenire la curiosità dei fotografi - professionisti e non - che sarebbero arrivati a violare l'intimità dei morti. Una brezza leggera ingarbugliava la plastica mentre la coppia faticava a fissarla ai sostegni.
Quando finalmente arrivai all'ingresso, mostrai il mio tesserino alla guardia ed entrai nel parcheggio. All'interno dell'edificio, decine di persone stavano sistemando tavoli, apparecchi radiologici portatili e sviluppatrici, computer, generatori e boiler per l'acqua calda. I bagni erano stati puliti a fondo e disinfettati, e per il personale erano stati allestiti uno spogliatoio e una sala relax. In uno degli angoli sul retro era stata creata una sala riunioni, nell'altro avrebbero trovato posto il centro informatico e la stazione per i raggi X.
Quando entrai, la riunione era già cominciata. I partecipanti ascoltavano allineati lungo le pareti mobili e seduti intorno ai tavolini pieghevoli riuniti al centro della «stanza». I tubi al neon, fissati al soffitto per mezzo di cavi, diffondevano sulle facce tese e pallide dei presenti una luce azzurrina. Sgusciai dentro e mi sedetti in un posto rimasto libero.
L'investigatore dell'NTSB incaricato del caso, Magnus Jackson, stava terminando di illustrare il funzionamento del Comando Operativo. Jackson era un uomo snello e solido come un dobermann e aveva la carnagione scura quanto il mantello dell'animale. Portava un paio di occhialini ovali e aveva capelli molto corti e brizzolati.
Jackson stava descrivendo il «gioco di squadra» dell'NTSB. Una alla volta, presentò le persone a capo dei gruppi investigativi che lui coordinava: strutture, sistemi, impianti, risorse umane, armi da fuoco ed esplosivi, meteorologia, informazioni radar, testimonianze sull'evento, dichiarazioni dei testimoni. Via via che Jackson li presentava, i vari investigatori - tutti con berretto e camicia siglati dalla grossa scritta gialla NTSB - si alzavano o facevano un cenno con la mano.
Anche se sapevo che quegli uomini e quelle donne avrebbero stabilito la causa per cui il volo TransSouth 228 era precipitato, il senso di vuoto che sentivo nel petto non accennava a scomparire, e mi rendeva difficile concentrarmi su qualcosa che non fosse la lista dei passeggeri.
Una domanda però attirò la mia attenzione.
«Il CVR e l'FDR sono stati trovati?»
«Non ancora.»
Il Cockpit Voice Recorder, o CVR, registra le trasmissioni radio e i suoni della cabina di pilotaggio, comprese le voci dei piloti e il rumore del motore. Il Flight Data Recorder, o FDR, registra tutti i dati relativi al volo, come altitudine, velocità, direzione. Entrambi i registratori di bordo hanno un ruolo molto importante nel determinare le probabili cause di un disastro aereo.
Quando Jackson ebbe concluso, uno specialista in problemi familiari dell'NTSB illustrò il piano federale di assistenza ai congiunti delle vittime dei disastri aerei. Spiegò che l'NTSB svolgeva la funzione di intermediario tra la TransSouth e i parenti delle vittime, e che un centro di assistenza alle famiglie era in corso di allestimento presso il motel Sleep Inn di Bryson City. Il centro avrebbe funzionato come punto di raccolta delle informazioni antemortem utili all'identificazione, informazioni che i membri delle varie famiglie avrebbero fornito per contribuire a identificare i resti chi di un figlio, chi di una figlia. Non potei fare a meno di rabbrividire.
Toccò poi a Charles Hanover. Aveva un aspetto terribilmente comune, poteva essere un farmacista e membro dell'ordine degli Elks, anziché il direttore generale di una compagnia aerea locale. La faccia era cerea, le mani gli tremavano. Un tic affliggeva l'occhio sinistro, un altro l'angolo della bocca, e quando si innescavano simultaneamente, tutto un lato del viso sussultava. C'era in lui qualcosa di benevolo e triste, e mi chiesi come fosse possibile che Lucy Crowe lo trovasse offensivo.
Hanover riferì che la TransSouth aveva istituito un numero verde per rispondere alle domande del pubblico. I telefoni erano stati installati nel centro di assistenza alle famiglie e il personale era stato incaricato di incontrarsi regolarmente con i parenti delle vittime presenti e di mantenersi in contatto con quelli che non c'erano. Erano anche stati presi accordi per fornire assistenza psicologica e religiosa.
La mia agitazione continuava a crescere via via che la riunione procedeva. Avevo ascoltato quelle presentazioni tante altre volte, e volevo assolutamente vedere la lista dei passeggeri.
Un rappresentante della FEMA, la Federal Emergency Management Agency, l'agenzia federale per la gestione delle emergenze, ci parlò di comunicazione. Il quartier generale dell'NTSB, il Comando Operativo allestito sul luogo del disastro e l'obitorio operativo erano collegati tra di loro e la FEMA avrebbe assistito l'NTSB nella divulgazione delle informazioni.
Earl Bliss parlò del DMORT. Era un uomo alto e spigoloso, dai radi capelli castani e lisci che pettinava con la riga in mezzo. Quando ancora era studente delle superiori, Earl lavorava nei fine settimana come trasportatore di cadaveri. E nel giro di dieci anni era riuscito a comprarsi la sua agenzia di pompe funebri. Soprannominato Early - precoce, anticipato - per via del suo prematuro arrivo in questo mondo, Earl aveva vissuto tutti i suoi quarantanove anni a Nashville, in Tennessee. E quando non si occupava di incidenti catastrofici, amava i cravattini e suonava il banjo in un gruppo di musica country e western.
Earl ricordò ai rappresentanti delle varie agenzie che ogni squadra del DMORT è formata da privati cittadini con professionalità e competenze specifiche, e comprende patologi, antropologi, odontologi, specialisti delle impronte digitali, impresali di pompe funebri, addetti recupero e trascrizione documentazione sanitaria, tecnici di radiologia, specialisti in salute mentale, psicologi e personale addetto alla sicurezza e all'amministrazione.
In caso di disastri naturali, aerei, o dovuti ad altri mezzi di trasporto, oppure in caso di sparatorie, bombe, attentati, stragi o suicidi di massa, una delle dieci squadre locali del DMORT viene attivata su richiesta dei funzionali del luogo. Earl illustrò i recenti impegni del DMORT. La bomba al Murrah Federal Building di Oklahoma City, nel 1995. Il deragliamento del treno Amtrak a Bourbonnais, Illinois, nel 1999. Due incidenti di aerei di pendolari, a Quincy, Illinois, nel 1996, e a Monroe, Michigan, nel 1997. Volo Korean Air Lines 801, Guam, 1997. Volo Egypt Air 990, Rhode Island, 1999. Volo Alaska Airlines 261, California, 2000.
Ascoltai Earl descrivere la struttura modulare dell'obitorio operativo, e spiegare come sarebbero stati trattati i resti. Tutte le vittime e gli effetti personali sarebbero stati etichettati, codificati, fotografati e radiografati presso la Sezione identificazione resti. Quindi si sarebbero creati dei Pacchetti Vittime Disastro - PVD - contenenti cadaveri interi, parti di cadaveri e tessuti vari da inviare alla Sezione raccolta dati postmortem per l'autopsia e le analisi antropologiche, delle impronte digitali e delle arcate dentarie.
Tutti i dati postmortem sarebbero stati computerizzati presso la Sezione identificazione, dove sarebbero pervenute anche le informazioni antemortem fornite dai familiari delle vittime; dopo di che i dati antemortem e postmortem sarebbero stati confrontati. Dopo le analisi, i resti sarebbero stati inviati a un centro di raccolta in attesa del nulla osta per la sepoltura.
Larke Tyrell fu l'ultimo a prendere la parola. Il medico legale ringraziò Earl, tirò un breve sospiro e osservò i presenti.
«Signore e signori, abbiamo un sacco di famiglie in lutto che sperano di ottenere da noi un po' di pace per le loro menti. Magnus e i suoi ragazzi le aiuteranno cercando di capire che cosa ha fatto precipitare quell'aereo. Noi invece daremo il nostro contributo assolvendo quello che è il nostro compito principale, cioè l'identificazione delle vittime. Avere qualcosa da seppellire aiuta a superare più in fretta il dolore, e noi faremo del nostro meglio per spedire a ognuna di quelle famiglie, nessuna esclusa, una bara o contenitore equivalente.»
Ripensai alla mia camminata nella foresta, e visualizzai quello che sarebbe stato il contenuto di molte di quelle bare. Nelle settimane a venire, il DMORT e le agenzie locali e statali avrebbero dato il massimo per identificare ogni brandello di tessuto associato al disastro aereo. Impronte digitali, documentazione medica e odontoiatrica, DNA, tatuaggi e fotografie di famiglia sarebbero stati la principale fonte di informazione, e gli antropologi avrebbero contribuito in modo determinante al processo di identificazione. Ma nonostante i nostri sforzi, in alcune bare ci sarebbe stato molto poco. Un arto mozzato. La corona di un molare carbonizzata. Un frammento del cranio. In molti casi, i familiari avrebbero ricevuto qualcosa che pesava solo pochi grammi.
«Una volta che la perlustrazione del sito sarà completata, tutti i resti dall'obitorio provvisorio verranno trasferiti qui» proseguì Larke. «Il trasporto dovrebbe cominciare nel giro di qualche ora. E a quel punto per noi comincerà il vero lavoro. Sapete tutti il fatto vostro, perciò darò solo qualche indicazione di massima e poi starò zitto.»
«Che sarebbe già molto.»
Qualche debole risata.
«Non separate gli effetti personali da nessun gruppo di resti finché il tutto non sarà ampiamente fotografato e descritto.»
La mente volò alla bambola di pezza.
«Non tutti i resti saranno sottoposti all'intero processo di identificazione. Chi si occupa del ricevimento dei resti deciderà cosa deve andare dove. Ma se una fase dell'identificazione salta, per favore indicatelo chiaramente sul Pacchetto Vittime Disastro. Perché vorrei evitare di scervellarmi per capire se gli esami odontologici non sono stati fatti perché non c'erano i denti o per chissà quale motivo. Scrivete qualcosa su tutti i moduli che fanno parte del Pacchetto. E accertatevi che le informazioni corrispondano al corpo che accompagnano. Vogliamo una documentazione completa su ogni identificazione.»
«Ancora una cosa. Come sicuramente avrete sentito, l'FBI ha ricevuto una telefonata anonima che parlava di un ordigno esplosivo. Quindi attenti agli effetti da esplosione; controllate le radiografie per verificare la presenza di eventuali frammenti e schegge dell'ordigno. Esaminate polmoni e timpani per trovare danni da pressione. Cercate tatuaggi da residui di esplosivi e ustioni da fiamma sulla pelle. Insomma, la solita procedura.»
Larke si interruppe e diede un'occhiata alla stanza.
«Alcuni di voi sono qui per la prima volta, altri hanno già fatto questo lavoro. Sicuramente non c'è bisogno di dirvi quanto saranno dure le prossime settimane. Perciò fate delle pause. Nessuno lavori più di dodici ore al giorno. Se vi sentite distrutti, parlate con uno psicologo. Non è una debolezza. E questa gente è qui per voi. Approfittatene.»
Larke agganciò la penna al blocco di carta che aveva in mano.
«Mi sembra che per il momento sia tutto. Non mi resta che ringraziare il mio staff e il DMORT di Earl per essere stati così tempestivi. E adesso, alla larga dal mio obitorio.»
Mentre la stanza si svuotava, mi avvicinai a Larke, decisa a chiedergli la lista dei passeggeri. Magnus Jackson mi precedette di qualche secondo e mi salutò con un cenno della testa. Avevo conosciuto l'investigatore incaricato alcuni anni prima, in occasione di un incidente aereo a cui entrambi lavoravamo, e sapevo che non era un fanatico dei convenevoli.
«Salve Tempe, come va?» mi chiese Larke, e subito si rivolse a Jackson.
«Ho visto che hai portato la squadra al gran completo.»
«Questo incidente metterà tutti sotto pressione. Entro domani al sito saremo quasi in cinquanta.»
Sapevo che solo l'esame superficiale del relitto sarebbe stato effettuato sul posto. Dopo essere stati fotografati e registrati, i vari rottami dell'aereo sarebbero stati trasportati verso una sistemazione permanente per essere assemblati e analizzati.
«Nient'altro sulla bomba?» domandò Larke.
«Al diavolo anche quella. Probabilmente è stato un mitomane, ma i media ci si sono buttati a pesce. La CNN lo chiama già il Bombarolo delle Blue Ridge, mentre la ABC ha optato per l'Attentatore della TransSouth.»
«Ci sarà anche l'FBI?» domandò Larke.
«Sono già qui, perciò tra non molto si faranno vivi.»
Li interruppi, incapace di aspettare oltre.
«Abbiamo una lista dei passeggeri?»
Il medico legale mi passò un tabulato che teneva tra le pagine del suo blocco per appunti.
Provai una paura che raramente avevo sentito nella mia vita.
Dio, ti prego.
Il mondo circostante scomparve mentre scorrevo in tutta fretta l'elenco dei nomi. Anderson. Beacham. Bertrand. Caccioli. Daignault. Larke parlava, ma le sue parole non mi arrivavano.
Una vita dopo, mi rilassai e ripresi a respirare.
Sulla lista non c'erano né Katy Brennan Petersons né Lija Feldman.
Chiusi gli occhi e respirai a fondo.
Quando li riaprii Magnus e Larke mi osservavano con aria interrogativa.
Restituii il tabulato senza dare spiegazioni, mentre già il senso di sollievo si stava trasformando in senso di colpa. Mia figlia era viva, ma i figli di altre persone giacevano morti sul fianco di una montagna. Dovevo andare a lavorare.
«Che cosa vuoi che faccia?» domandai a Larke.
«Earl ha l'obitorio sotto controllo. Puoi occuparti del recupero dei resti. Ma quando cominceranno a trasportarli qui, dovrai esserci anche tu.»
Tornata al sito, andai direttamente a una roulotte di decontaminazione e indossai mascherina, tuta e guanti: più che un'antropologa sembravo un'astronauta. Feci un cenno con la testa alla guardia, aggirai la recinzione e mi diressi all'obitorio provvisorio per un aggiornamento.
Qui stavano inserendo in un programma tipo CAD la posizione esatta di ciascun oggetto segnato con le bandierine, utilizzando una tecnologia chiamata Stazione Totale. Successivamente la posizione delle varie parti dell'aereo, degli effetti personali e dei resti umani sarebbe stata mappata su griglie virtuali e stampata su un tabulato. Dato che questa tecnica era molto più veloce e molto meno laboriosa del tradizionale sistema di mappatura per mezzo di griglie delimitate con lo spago, la rimozione dei resti era già cominciata. Uscii e mi diressi verso la zona dei rottami.
Il sole stava scendendo sulla linea degli alberi e ombre delicate screziavano il luogo del massacro. Erano stati montati dei fari speciali e l'odore di carne putrefatta si era fatto più intenso. A parte questo, durante la riunione non c'erano stati altri cambiamenti.
Durante le successive tre ore, procedetti insieme ai colleghi a etichettare, fotografare e impacchettare tutto ciò che era rimasto dei passeggeri del volo TransSouth 228. Cadaveri completi, arti e busti andarono nei sacchi mortuari, i frammenti nei sacchetti più piccoli. I contenitori vennero poi trasportati alla zona di accoglienza e sistemati nei camion frigoriferi.
L'aria era tiepida e la tuta e i guanti mi facevano sudare. Le mosche volavano ovunque, attirate dalla carne in putrefazione. Mentre raccoglievo interiora e tessuto cerebrale, diverse volte dovetti lottare contro la nausea. Alla fine naso e mente diventarono insensibili. E non mi accorsi nemmeno che il cielo si era tinto di rosso e i fari si erano accesi.
A quel punto arrivai alla ragazza. Giaceva supina, le gambe piegate all'indietro a metà polpaccio. I lineamenti erano stati divorati e le ossa esposte scintillavano rosse nella luce del tramonto.
Mi alzai in piedi, mi strinsi le braccia intorno al busto e respirai più volte cercando di rilassarmi. Inspirare, espirare. Inspirare, espirare.
Santo Dio. Non era già abbastanza precipitare da quasi trentamila piedi? Ci si dovevano mettere anche gli animali a dilaniare quello che era rimasto?
Quei ragazzi avevano ballato, giocato a tennis, volato sulle montagne russe, spedito le loro e-mail. Erano stati il sogno dei loro genitori. Ora non lo erano più. Ora sarebbero stati solo una fotografia incorniciata posata su una bara chiusa.
Una mano si posò sulla mia spalla.
«Tempe, è ora di fare una pausa.»
Gli occhi di Earl Bliss mi guardavano dalla fessura tra la mascherina e il berretto.
«Sto bene.»
«Fai una pausa. È un ordine.»
«Okay.»
«Di almeno un'ora.»
Mi diressi al centro operativo dell'NTSB ma giunta a metà strada mi fermai, sapendo che là dentro avrei trovato il caos. Avevo bisogno di tranquillità. Uccellini che cantavano, scoiattoli che saltavano, aria non contaminata dal puzzo della morte. Invertii il passo e camminai verso la foresta.
Costeggiando il margine della zona dei rottami notai una radura tra gli alberi e ricordai che Larke e il vicegovernatore, dopo essere scesi dall'elicottero, erano spuntati proprio da lì. Mi avvicinai ancora e vidi dove avevano camminato. Probabilmente un sentiero, o il letto di un torrente in secca, ma adesso era solo un passaggio sinuoso e senza alberi, coperto di sassi e orlato da cespugli. Mi tolsi mascherina e guanti e puntai decisa verso la boscaglia.
Più mi inoltravo tra gli alberi, più gli organizzati schiamazzi intorno alla carcassa dell'aereo si affievolivano lasciando emergere il rumore della foresta. Dopo una trentina di metri, salii sul tronco di un albero caduto, mi sdraiai raccogliendo le gambe e osservai il cielo. Il rosso ormai era striato di giallo e di rosa e il blu della notte si stava avvicinando all'orizzonte. Presto sarebbe stato buio. Non potevo fermarmi a lungo.
Lasciai che i miei neuroni scegliessero un argomento.
La ragazza con la faccia devastata.
No. Un altro.
I neuroni optarono per i vivi.
Katy. Mia figlia ormai aveva più di vent'anni e si stava costruendo una vita indipendente. Era ciò che volevo, naturalmente, ma tagliare il cordone ombelicale era molto duro. La bambina Katy aveva attraversato la mia vita ed era scomparsa. Adesso stavo conoscendo la giovane donna Katy, che mi piaceva molto.
Ma dov'è? domandarono i neuroni.
Altro argomento.
Pete. Andavamo più d'accordo da separati che da sposati. Adesso ogni tanto riusciva anche a parlarmi e ad ascoltarmi. Dovevo chiedere il divorzio e andare avanti o accettare le cose così com'erano?
I neuroni non avevano risposta.
Andrew Ryan. Di recente avevo pensato molto a lui. Ryan era un tenente della polizia di Stato di Montréal. Anche se ci conoscevamo da una decina d'anni, avevo accettato di uscire con lui solo da un anno.
Uscire con qualcuno. Forse tra single ultraquarantenni era meglio usare altre parole.
I neuroni non avevano suggerimenti.
Terminologia a parte, tra Ryan e me le cose non erano mai decollate. Proprio il giorno della nostra prima uscita ufficiale in pubblico, lui aveva accettato una missione sotto copertura e non lo vedevo da mesi.
In momenti come quelli, la sua mancanza mi pesava moltissimo.
D'un tratto udii un fruscio provenire dal sottobosco, e trattenni il fiato per sentire meglio. Niente. Dopo qualche secondo lo udii ancora, questa volta dall'altra parte. Il rumore era troppo forte per essere quello di un coniglio o di uno scoiattolo.
Dalle cellule cerebrali arrivò un vago segnale d'allarme.
Pensai che forse Earl mi aveva seguita, così mi alzai a sedere e mi guardai intorno. Ero sola. Per un buon minuto niente si mosse, poi il rododendro alla mia destra oscillò e sentii ringhiare debolmente. Mi voltai, ma vidi solo foglie e arbusti. Con gli occhi puntati tra i cespugli, scesi dal tronco e appoggiai i piedi a terra.
Qualche attimo dopo sentii di nuovo ringhiare, e poi un gemito stridulo.
Le cellule cerebrali allertarono i lobi limbici e una scarica di adrenalina si diffuse in tutto il corpo.
Lentamente, mi accovacciai e raccolsi una pietra. Sentii un movimento alle mie spalle e mi voltai in quella direzione.
I miei occhi incontrarono altri occhi. Neri e scintillanti. Nella fioca luce del crepuscolo, delle labbra scoprivano denti pallidi e lucidi. Tra i denti, qualcosa di orribilmente familiare.
Un piede.
I neuroni si sforzarono di trovare un significato.
Quei denti erano affondati in un piede umano.
I neuroni si collegarono a ricordi custoditi nella memoria recente. Una faccia massacrata. Il commento di un vicesceriffo.
Oh, Dio! Un lupo? Ero disarmata. Che cosa fare? Minacciare?
L'animale mi fissava, il corpo selvatico e magro.
Scappare?
No. Dovevo recuperare quel piede. Apparteneva a una persona. Una persona con amici e parenti. Non l'avrei abbandonato a quella bestia.
Poi spuntò un secondo animale, che si fermò dietro il primo, mostrando i denti, lasciando che la saliva gli colasse sul pelo intorno alla bocca. Ringhiò e le labbra tremarono. Lentamente mi alzai e sollevai la pietra.
«Via!»
Gli animali si immobilizzarono, il primo lasciò cadere il piede. Annusando l'aria, il terreno, di nuovo l'aria, abbassò la testa, alzò la coda, fece un passo verso di me, poi si spostò leggermente di lato e si fermò a osservarmi, immobile. L'altro fece altrettanto. Non sapevano cosa fare o avevano un piano? Cominciai a retrocedere, udii uno schiocco e quando mi voltai vidi alle mie spalle altri tre animali. Sembrava che si stessero lentamente muovendo in cerchio.
«Fermi!»
Scagliai la pietra urlando, e colpii quello più vicino a un occhio. L'animale guaì e arretrò di qualche passo. Gli altri per un attimo si fermarono, poi ripresero il loro accerchiamento.
Dando la schiena all'albero caduto, cominciai a torcere un ramo cercando di spezzarlo.
Il cerchio si stava facendo sempre più piccolo. Li sentivo ansimare, sentivo l'odore dei loro corpi. Uno di loro fece un passo nel cerchio, poi un altro, agitò la coda, poi si fermò a fissarmi, senza un rumore.
Il ramo si spezzò e il rumore fece indietreggiare con un balzo l'animale, che però riprese a fissarmi.
Brandendo il mio ramo come una mazza da baseball, urlai: «Maledette bestiacce. Andate via!» e tentai un affondo verso il capo branco.
Questo schivò il colpo facilmente, retrocesse di un metro, poi riprese a girare in tondo e a ringhiare. Mentre preparavo i polmoni al più potente urlo della mia vita, qualcuno mi batté sul tempo.
«Via, maledette palle di pelo. Aria! Alzate il culo!»
Dopo di che un missile atterrò vicino al capo branco, seguito da un altro missile.
L'animale annusò, ringhiò, poi si voltò e scomparve nella foresta. Gli altri esitarono, poi lo seguirono.
Lasciai cadere il ramo a terra, e con mano tremante mi appoggiai al tronco caduto.
Una figura in tuta bianca e mascherina mi corse incontro e scagliò un'altra pietra verso i lupi che si dileguavano nella boscaglia. Poi una mano sollevò la mascherina. E nonostante la penombra del crepuscolo, riconobbi subito quel volto.
Non poteva essere. Era troppo poco probabile per essere vero.
4
«Ottimo stile. Mai giocato a baseball?»
«Quella maledetta bestiaccia era pronta per saltarmi alla gola!» Stavo quasi gridando.
«I lupi non attaccano i vivi. Stavano solo cercando di allontanarti dalla loro cena.»
«Per caso uno di loro te l'ha spiegato personalmente?»
Andrew Ryan mi tolse una foglia dai capelli.
Ma Ryan non doveva essere sotto copertura in Québec?
«Che diavolo ci fai qui?» domandai, leggermente più tranquilla.
«Ehi, Riccioli d'oro, è questo il ringraziamento? Ma forse dovrei chiamarti Cappuccetto Rosso, date le circostanze.»
«Grazie» bofonchiai, togliendomi i capelli dalla fronte. Pur essendo effettivamente grata a Ryan per il suo intervento, preferivo non considerarlo un salvataggio.
«Così va meglio.»
Fece per toccarmi di nuovo i capelli, ma schivai il suo gesto. Come sempre, quando le nostre strade si incrociavano, io ero in pessime condizioni.
«Raccolgo brandelli di materia cerebrale da ore, e un branco di lupi mi ha appena scelta per mandarmi all'altro mondo, e tu senti il bisogno di formalizzarti per la mia acconciatura?»
«Hai un buon motivo per startene sola in mezzo alla foresta?»
Il suo paternalismo mi irritò. «E tu hai un buon motivo per essere qui?»
Le rughe sul suo viso si fecero più profonde. Quelle rughe così belle, ognuna esattamente al posto giusto.
«Bertrand era su quell'aereo.»
«Jean?»
La lista dei passeggeri. Bertrand era un nome comune, perciò non avevo proprio pensato al compagno di Ryan.
«Stava scortando un prigioniero.» Ryan inspirò dalle narici e poi espirò. «Dovevano prendere un volo della Canada Air a Dulles.»
«Oh, mio Dio. Mi dispiace moltissimo.»
Rimanemmo in silenzio, incerti su che cosa dire, finché la foresta non fu lacerata da un suono tremulo e sinistro, seguito da una serie di guaiti acutissimi. Per caso i nostri amici stavano tornando a prendersi la rivincita?
«È meglio che torniamo» suggerì Ryan.
«Niente da ridire.»
Ryan abbassò la cerniera della tuta, sfilò una torcia dalla cintura e dopo averla accesa la sollevò all'altezza della spalle.
«Dopo di te.»
«Aspetta. Dammi la torcia.»
Ryan me la porse e io andai nel punto dove avevo visto il primo animale.
Ryan mi seguì.
«Se hai intenzione di andare per funghi, ti avverto che non è il momento migliore.»
Si interruppe quando vide quello che stavo illuminando.
Nel cono di luce gialla il piede era una macabra visione, con quella massa di carne martoriata che finiva poco oltre la caviglia. Le ombre danzavano tra i solchi e i buchi lasciati dai denti dei carnivori.
Presi un paio di guanti puliti dalla tasca, ne infilai uno e raccolsi il piede. Lasciai l'altro a segnalare il posto, dopo averlo fermato con una pietra.
«Non dovresti procedere a una mappatura del punto?»
«Non è possibile sapere dove il branco ha recuperato il piede. E poi, se non lo portiamo via, è come lasciargli il dessert.»
«Il capo sei tu, Tempe.»
Seguii Ryan fuori dalla foresta, tenendo il reperto il più lontano possibile dal mio corpo.
Quando arrivammo al centro operativo, Ryan entrò subito nella roulotte dell'NTSB e io andai a portare il mio tesoro all'obitorio provvisorio. Dopo aver ascoltato dove l'avevo trovato e perché l'avevo raccolto, il personale dell'accettazione assegnò al piede un numero, lo chiuse in un sacchetto e lo archiviò in uno dei camion frigoriferi, mentre io tornai a occuparmi del recupero dei resti.
Due ore dopo Earl venne da me e mi consegnò un biglietto.
Passare in obitorio. Ore 7.00. LT
Mi comunicò un indirizzo e disse che la mia giornata di lavoro era finita. E nonostante le mie proteste, fu irremovibile.
Andai alla roulotte di decontaminazione, feci una doccia bollente che cercai di far durare il più a lungo possibile e indossai degli abiti puliti. Quando lasciai la roulotte avevo la pelle in fiamme, ma almeno il cattivo odore non c'era più.
Mentre scendevo gli scalini, esausta come non mai, notai Ryan appoggiato a una volante con i vetri antiproiettile parcheggiata all'inizio della strada di accesso. Stava parlando con Lucy Crowe.
«Ha un'aria veramente sbattuta» mi disse lo sceriffo quando mi avvicinai.
«Sto bene» risposi. «Anche se Earl mi ha sequestrata per tutto il giorno.»
«Come vanno le cose laggiù?»
«Vanno.»
Davanti a quei due mi sentii una miniatura. Ryan e Lucy Crowe superavano entrambi il metro e ottanta, anche se lei lo batteva per larghezza delle spalle. Per dirla con il gergo della pallacanestro, lui sembrava un point guard e lei era un power forward.
Non ero in vena di chiacchiere, perciò chiesi a Crowe di indicarmi la strada e mi congedai.
«Brennan, aspetta.»
Lasciai che Ryan mi raggiungesse, e poi gli lanciai un'occhiata come a dire «non ricominciamo». Non avevo alcuna voglia di parlare di lupi.
Mentre camminavamo, pensai a Jean Bertrand, con le sue giacche firmate, le cravatte scelte con cura, la faccia da poliziotto coscienzioso. Bertrand dava sempre l'impressione di impegnarsi a fondo, di ascoltare tutto e tutti attentamente, per paura di perdere una sfumatura o un dettaglio importante. Mi sembrava di sentirlo, saltare da una lingua all'altra parlando il suo personalissimo franco-inglese, e ridere per le sue stesse battute, senza accorgersi che non facevano ridere nessuno.
Ripensai alla prima volta che l'avevo incontrato. Ero arrivata da poco a Montréal, ed ero stata invitata dalla Squadra Omicidi della SQ, la polizia di Stato del Québec, a una festa natalizia. C'era anche Bertrand, da poco affiancato ad Andrew Ryan, il detective che nell'ambiente era già una specie di leggenda; Jean era alticcio, e non faceva nulla per nascondere la sua ammirazione. Ma alla fine della serata la venerazione per il suo eroe era diventata imbarazzante per chiunque. Soprattutto per Ryan.
«Quanti anni aveva?» Posi la domanda a voce alta, senza pensarci.
«Trentasette.» Ryan stava seguendo i miei pensieri.
«Gesù.»
Raggiungemmo la strada provinciale e iniziammo a salire.
«Chi stava scortando?»
«Un tizio chiamato Rémi Petricelli, Pepper per gli amici.»
Conoscevo quel nome. Petricelli era un pezzo grosso degli Hells Angels del Québec e si diceva che avesse agganci con il crimine organizzato. I governi del Canada e degli Stati Uniti indagavano su di lui da anni.
«E che ci faceva Pepper in Georgia?»
«Circa due mesi fa un piccolo trafficante chiamato Jacques Fontana è finito carbonizzato in una Subaru Outback. Quando Pepper ha capito che tutte le piste portavano a lui, ha preferito accettare l'ospitalità dei suoi fratelli qui al Sud. Per fartela breve, Pepper è stato visto in un bar di Atlanta, la polizia locale l'ha inchiodato e la settimana scorsa la Georgia ha autorizzato l'estradizione. Bertrand lo stava riportando in Québec.»
Eravamo arrivati alla mia auto. Sul terrapieno, un uomo illuminato da un riflettore reggeva un microfono, mentre un assistente gli incipriava il viso.
«Questo significa che c'è molta carne al fuoco» proseguì Ryan in tono cupo.
«Cioè?»
«Pepper aveva molte conoscenze. Se lui avesse deciso di parlare, un sacco di amici suoi si sarebbero trovati nella merda fino al collo.»
«Non ti seguo.»
«Probabilmente qualche persona molto potente lo voleva morto.»
«Al punto da uccidere ottantasette altre persone?»
«Senza pensarci due volte.»
«Ma quell'aereo era pieno di ragazzi.»
«Questi tizi non sono gesuiti.»
Ero troppo scioccata per replicare.
Vedendo la mia faccia, Ryan cambiò argomento. «Fame?»
«Ho solo voglia di dormire.»
«Prima hai bisogno di mangiare.»
«Mi fermerò lungo il tragitto a prendere un hamburger» mentii.
Ryan fece un passo indietro. Io aprii la portiera, salii in auto e partii, troppo stanca e amareggiata anche solo per augurargli la buona notte.
Dato che tutte le stanze della zona erano state prese d'assalto dalla stampa e dall'NTSB, l'unico posto che ero riuscita a prenotare era un bed and breakfast dalle parti di Bryson City, che trovai solo dopo un paio di indicazioni e un paio di svolte sbagliate.
Fedele al suo nome, la High Ridge House - la casa delle alte vette - si trovava in cima a un cocuzzolo in fondo a una lunga e tortuosa stradina. Era una casa colonica a due piani con porte e finestre in legno, e con un'ampia veranda che correva lungo tutta la facciata e i lati dell'edificio. Sotto il porticato notai sedie a dondolo in legno, fioriere di vimini, felci. Tutto molto vittoriano.
Lasciai la mia auto insieme ad altre cinque o sei in un francobollo di parcheggio ricavato a sinistra della casa e seguii un vialetto lastricato delimitato da panchine di ferro battuto. Un tintinnio di campanelli avvertì che avevo aperto la porta d'ingresso. All'interno, la casa profumava di cera per mobili, legno di pino, stufato di agnello.
L'Irish stew è forse il mio piatto preferito. Come sempre, mi fece pensare alla nonna. Due volte in due giorni? Non è che la cara vecchietta stava dando uno sguardo quaggiù?
Dopo qualche secondo comparve una donna. Mezz'età, un metro e cinquanta, niente trucco, capelli folti e grigi arrotolati in uno strano salsicciotto e puntati in cima alla testa. Indossava una lunga gonna di jeans e una felpa rossa con la scritta IL SIGNORE SIA LODATO.
Prima che potessi dire qualcosa la donna mi abbracciò. Sorpresa, rimasi curva su di lei con le braccia aperte per paura di farle male con la borsa o con il computer portatile.
Dopo un'eternità la donna fece un passo indietro e mi guardò con l'intensità di un tennista che aspetta un servizio durante il torneo di Wimbledon.
«La dottoressa Brennan?»
«Tempe.»
«È il Signore che ti manda da quelle povere creature morte.»
Annuii.
«"Gran cosa è agli occhi del Signore la morte dei fedeli suoi." È scritto nel Libro dei Salmi.»
Siamo a posto.
«Io sono Ruby McCready, ed è per me un vero onore averti qui a High Ridge House. Ho intenzione di occuparmi personalmente di ognuno di voi.»
Mi chiesi chi altro poteva essere finito in quel posto, ma non dissi nulla. L'avrei presto scoperto da sola.
«Grazie, Ruby.»
«Questa dalla a me.» Tese il braccio e mi prese la borsa. «Ti accompagno in camera tua.»
Attraversammo un salottino e la sala da pranzo, salimmo una scala di legno e percorremmo un corridoio su cui si affacciava una serie di porte, ciascuna contrassegnata da una targa dipinta a mano. Il corridoio finiva ad angolo retto e dietro l'angolo c'era la porta di una stanza singola. La targa sulla porta recitava: MAGNOLIA.
«Dato che sei l'unica signora, ti ho riservato la Magnolia.» Eravamo sole, ma la voce di Ruby era diventata un sussurro complice. «È l'unica con il gabinetto privato. Immagino che avrai voglia di un po' di intimità.»
Gabinetto? In quale posto al mondo ci si riferisce al bagno parlando di gabinetto?
Ruby mi seguì dentro la camera, posò la mia borsa sul letto e cominciò a sprimacciare i cuscini e a chiudere le tendine, come un fattorino del Ritz.
Il tessuto e la carta da parati spiegavano l'appellativo floreale della stanza. Mantovane sulle finestre, tovaglie sui tavoli, volant in ogni angolo della stanza. La sedia a dondolo in acero e il letto erano coperti di cuscini, e una vetrinetta era occupata da un miliardo di statuine. Tra le tante, riconobbi l'orfanella Annie con il suo cane, Shirley Temple vestita da Heidi e un collie che immaginai dovesse essere Lassie.
In fatto di arredamento, i miei gusti tendono se non al minimalismo, sicuramente alla semplicità; perciò quando mi vedo circondata di paccottiglia, comincio a diventare nervosa.
«È carino qui» commentai.
«Adesso ti lascio un po' sola. La cena è alle sei, e per oggi ormai l'hai saltata, però ho un po' di stufato sul fuoco. Te ne preparo un piatto?»
«No, grazie. Penso che andrò a dormire.»
«Hai già cenato?»
«Non ho molta fam...»
«Ma guardati: sei più magra del brodino che danno alla mensa dei poveri. Devi metterti qualcosa nello stomaco.»
Perché erano tutti così preoccupati per la mia alimentazione?
«Ti porto un vassoio.»
«Ti ringrazio molto, Ruby.»
«Non c'è bisogno di ringraziarmi. Un'ultima cosa: non ci sono serrature a High Ridge House. Perciò puoi andare e venire come ti pare.»
Anche se avevo già fatto la doccia al sito, sistemai il poco bagaglio che mi ero portata e mi concessi un lungo bagno caldo. Come le vittime degli stupri, le persone che lavorano sul luogo di un disastro aereo spesso tendono a lavarsi eccessivamente, spinte dal bisogno di purificare mente e corpo.
Uscita dal bagno, trovai in camera un piatto di stufato bollente, pane integrale e una tazza di latte. Mentre stavo infilzando una rapa, trillò il cellulare. Temendo che si attivasse la segreteria telefonica, afferrai la borsa, la rovesciai sul letto e frugai nervosamente tra la lacca per capelli, il portafoglio, il passaporto, l'agenda, gli occhiali da sole, le chiavi, i prodotti per il trucco, finché non riuscii a trovare il telefono e a rispondere, pregando che fosse Katy.
Era lei. La voce di mia figlia mi scatenò dentro una tale emozione che faticai a parlare con calma.
Pur essendo evasiva circa il luogo da cui chiamava, sembrava felice e in buona salute. Le diedi il numero della High Ridge House. Mi disse che era con amici e che sarebbe rientrata a Charlottesville domenica sera. Non le chiesi spiegazioni, né lei me le offrì, circa il genere e il numero di questi amici.
Il bagno caldo unito alla chiamata lungamente attesa di mia figlia fecero il miracolo. Il sollievo di aver sentito Katy mi aveva resa quasi euforica, e di colpo mi ritrovai affamata. Divorai lo stufato di Ruby, puntai la sveglia da viaggio e mi infilai a letto.
In fondo la Casa del Volant non era poi così male.
Il mattino seguente mi alzai alle sei, indossai un paio di pantaloni da lavoro puliti, mi lavai i denti, misi un tocco di fard e raccolsi i capelli sotto un berretto degli Hornets di Charlotte. Perfetta. Scesi al piano di sotto, pensando di prendere accordi con Ruby per il lavaggio della biancheria.
Davanti al lungo tavolo in legno di pino della sala da pranzo era seduto Andrew Ryan. Presi posto di fronte a lui, restituii a Ruby il suo garrulo buon giorno e mi lasciai versare una tazza di caffè. Quando sentii chiudersi la porta della cucina, parlai.
«Che cosa ci fai qui?»
«È tutto quello che hai da dirmi?»
Attesi.
«Questo posto mi è stato raccomandato dallo sceriffo.»
«Chissà come mai proprio questo?»
«È carino» disse Ryan indicando la stanza con un gesto. «Pieno d'amore.» Sollevò la tazza verso un messaggio appeso al muro: GESÙ È AMORE, inciso a fuoco su una tavola di legno di pino e verniciato col flatting per essere consegnato intatto alla posterità.
«Come sapevi che ero qui?»
«Il cinismo fa venire le rughe.»
«Non è vero. Chi te l'ha detto?»
«Lucy Crowe.»
«Come mai non sei andato al Comfort Inn?»
«Pieno.»
«Chi altro c'è?»
«Un paio di ragazzi dell'NTSB al piano di sopra, e un agente speciale dell'FBI. Che cosa avranno poi per essere speciali?»
Ignorai la battuta.
«Non vedo l'ora di ritrovarmi in bagno insieme a tutti questi uomini. Pare che si crei una grande complicità. Ce ne sono altri due su questo piano e ho sentito che hanno infilato un po' di giornalisti in una stanza di servizio nel seminterrato.»
«Come sei riuscito ad avere una stanza qui?»
I suoi occhi azzurri mi guardarono fingendo infantile innocenza. «Forse sono arrivato al momento giusto. O forse lo sceriffo è una persona influente.»
«Non ti sognare di venire a usare il mio bagno.»
«Attenta al cinismo.»
Arrivò Ruby con prosciutto, uova, patate fritte e pane tostato. In genere a colazione preferisco i cereali, ma quel giorno mi tuffai sul cibo come una recluta in addestramento.
Ryan e io mangiammo in silenzio, e intanto cercai di riflettere sulla situazione. La sua presenza mi infastidiva, perché? Era la sua estrema sicurezza? Il suo atteggiamento protettivo? Invasione di territorio? Oppure il fatto che molti mesi prima aveva dato la precedenza al suo lavoro ed era scomparso dalla mia vita? O perché era ricomparso nel momento esatto in cui avevo bisogno di aiuto?
Mentre prendevo una fetta di pane mi resi conto che non aveva detto nulla della sua missione sotto copertura. Benissimo. Lasciamo che sia lui a sollevare l'argomento.
«La marmellata, per favore.»
Me la passò.
Ryan in effetti mi aveva tolto da un guaio serio.
Spalmai uno strato di confettura di more più spesso di una colata di lava.
I lupi non erano colpa di Ryan. E neanche il disastro aereo.
Ruby ci portò dell'altro caffè.
Santo cielo, quest'uomo ha appena perso il suo compagno di lavoro.
La comprensione ebbe la meglio sull'irritazione.
«Grazie per avermi dato una mano con i lupi.»
«Non erano lupi.»
«Eh?» Di nuovo l'irritazione.
«Non erano lupi.»
«Certo, a pensarci bene doveva essere un branco di cocker.»
«Non ci sono lupi in North Carolina.»
«Il vice di Lucy Crowe ha parlato di lupi.»
«Il tipo probabilmente non distingue un alce da una mucca.»
«Di recente in North Carolina i lupi sono stati reintrodotti.» Ero sicura di averlo letto da qualche parte.
«Quelli sono lupi rossi e stanno in una riserva nella zona orientale del Paese, non sulle montagne.»
«Mi sembra di capire che sei diventato un esperto della fauna del North Carolina.»
«Come tenevano la coda?»
«Cosa?»
«Gli animali tenevano la coda bassa o alta?»
Dovetti pensarci.
«Bassa.»
«Appunto. Il lupo tiene la coda alta. Il coyote invece la tiene bassa, ma quando vuole essere minaccioso la solleva in posizione orizzontale.»
Rividi l'animale annusare l'aria e poi sollevare la coda e inchiodarmi con lo sguardo.
«Mi stai dicendo che erano coyote?»
«O magari cani selvatici.»
«Ci sono i coyote sugli Appalachi?»
«I coyote sono in tutto il Nord America.»
«E allora?» Mi ripromisi di controllare.
«Allora niente. Pensavo che ti interessasse saperlo.»
«È stata comunque un'esperienza terribile.»
«Giusto. Ma non è la cosa peggiore che ti sia successa.»
Ryan aveva ragione. La storia dei coyote era stata un'esperienza terrorizzante, ma non la peggiore della mia vita. Anche se i giorni che seguirono sarebbero stati in gara per le prime posizioni. Trascorsi ogni minuto di lavoro immersa fino ai gomiti nella carne martoriata, separando resti mischiati fra loro e riassemblando parti di cadaveri. Con il resto della squadra, formata da patologi, odontologi e altri antropologi, contribuii alla determinazione di età, sesso, razza e altezza delle vittime, analizzai radiografie, confrontai le caratteristiche scheletriche antemortem e postmortem, e interpretai i tipi di ferite. Era un compito raccapricciante, reso ancor più difficile dalla giovane età di gran parte delle vittime analizzate.
Per molti lo stress fu insostenibile. Ci fu chi resistette per giorni, prima di cedere a tremori diffusi, lacrime o incubi terribili. E infine dovette ricorrere all'aiuto massiccio degli psicologi. E ci fu chi, semplicemente, fece le valigie e tornò a casa. Ma, per la maggior parte di noi, il cervello si adattò alla situazione e l'impensabile divenne la nostra quotidianità. Recuperammo il giusto distacco e facemmo ciò che doveva essere fatto.
Ogni notte andavo a letto sola e sfinita, confortata unicamente dal pensiero dei progressi fatti. Pensavo alle famiglie, e mi dicevo che le cose stavano funzionando per il meglio. Saremmo riusciti a dare a tutti un modo per conciliarsi con la perdita dei loro cari.
Poi il reperto numero 387 arrivò alla mia Sezione.
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Non pensai più al piede finché non me lo ritrovai davanti sul carrello che distribuiva il materiale da analizzare.
Dopo la nostra prima colazione insieme, Ryan e io ci eravamo incontrati raramente. Ogni giorno mi alzavo e lasciavo la High Ridge House prima delle sette, e la sera rientravo tardi riuscendo a malapena a farmi una doccia prima di crollare a letto. Ci eravamo scambiati solo dei «buona giornata» e degli «anche a te», e non avevamo trovato un attimo di tempo per parlare del periodo passato sotto copertura, o del suo ruolo nelle indagini sul disastro aereo. Sapevo solo che Ottawa aveva chiesto che Ryan partecipasse alle indagini, visto che un tutore della legge canadese si trovava a bordo dell'aereo, e che la richiesta era stata accolta.
Cercando di scacciare i pensieri su Ryan e sui coyote, svuotai il sacco mortuario sul mio tavolo. Negli ultimi giorni mi ero occupata di decine di arti mozzati e altre piacevolezze, al punto che un semplice piede non sembrava neanche più così macabro. Anzi, poiché l'incidenza dei traumi riportati da polpacci e caviglie era insolitamente alta, il dato sarebbe stato discusso alla riunione del mattino seguente. I patologi e gli antropologi concordavano sul fatto che la frequenza di quelle ferite era preoccupante.
Non c'è molto da osservare su un piede. Questo aveva unghie spesse e giallastre, una grossa cipolla e l'alluce valgo, caratteristiche tipiche di una persona anziana. Le dimensioni suggerivano l'appartenenza a una donna. La pelle aveva il colore del pane tostato, ma questo non era un particolare significativo perché anche un'esposizione breve all'ambiente può causare lo schiarimento o lo scurimento della pelle.
Appoggiai la radiografia sul diafanoscopio. Diversamente dalle altre lastre che avevo visionato, questa non rivelava la presenza di corpi estranei nel piede. Lo annotai sul modulo da inserire nel PVD, il Pacchetto Vittime Disastro.
L'osso corticale era sottile, e su molte delle articolazioni delle falangi notai fenomeni di rimodellamento dell'osso.
Va bene. La signora era anziana. Artrite e perdita ossea quadravano con la cipolla.
A quel punto ebbi la prima sorpresa. La radiografia evidenziava una serie di nuvolette bianche tra le dita dei piedi, e lesioni scavate ai margini della prima e della seconda articolazione metatarso-falangea. Riconobbi quei sintomi immediatamente.
La gotta è il risultato di un inadeguato metabolismo dell'acido urico che porta al deposito di cristalli di urati, nei tessuti articolari di mani e piedi. Nei casi di malattia cronica, si formano dei noduli e l'osso al di sotto dell'articolazione viene eroso. I malati non sono in pericolo di vita ma vanno incontro a periodi intermittenti di gonfiore e dolori. La gotta è un disturbo relativamente comune, e nel novanta per cento dei casi colpisce gli uomini.
Allora perché la stavo riscontrando in una donna?
Tornai al mio tavolo, presi un bisturi ed ebbi la seconda sorpresa.
Anche se sapevo che la refrigerazione può causare essicazione e restringimento, il piede appariva molto diverso dai resti che avevo visto nella foresta. Perfino nelle parti e nei cadaveri carbonizzati che avevo già esaminato, i tessuti profondi erano rossi e di aumentata consistenza. La carne all'interno di quel piede, invece, era una poltiglia discromica, come se qualcosa avesse accelerato il processo di decomposizione. Presi un appunto e decisi che avrei chiesto il parere dei colleghi.
Con il bisturi sollevai muscolo e tendine finché non mi fu possibile posizionare i calibri direttamente contro l'osso più grosso, il calcagno. Ne misurai la lunghezza e la larghezza, quindi misurai la lunghezza di un metatarso e annotai le dimensioni ottenute su un modulo del PVD e sulla pagina di un blocco a spirale.
Mi sfilai i guanti, mi lavai e andai con il blocco nella sala relax, dove tenevo il portatile. Avviai un programma chiamato Fordisc 2.0, inserii i dati e richiesi un'analisi funzionale discriminante utilizzando le due dimensioni del calcagno.
Il piede risultò appartenere a un maschio di razza negroide, anche se la tipizzazione e le probabilità indicavano che quei risultati non erano significativi. Provai a eseguire un confronto maschio-femmina, a prescindere dalla razza, e di nuovo il programma collocò il piede tra i valori maschili.
Okay. Il sesso quadra con la gotta. Forse il tipo era piccolo. E questo spiegherebbe la debolezza della classificazione razziale.
Mentre tornavo al mio tavolo, passai davanti alla Sezione identificazione, con la sua decina di computer appoggiati ai tavoli e i fasci di cavi che serpeggiavano sul pavimento. A ogni terminale, un esperto inseriva i dati provenienti dal centro di assistenza alle famiglie e le informazioni fornite dagli specialisti forensi, comprese impronte digitali, radiografie, particolari antropologici, patologici e odontologici.
Tra i vari esperti, notai una figura familiare, con gli occhiali a mezzaluna sulla punta del naso e i denti superiori che tormentavano il labbro inferiore. Primrose Hobbs aveva lavorato per trent'anni come infermiera di pronto soccorso e poi era passata dai defibrillatori all'inserimento dati presso l'archivio del Presbyterian Hospital di Charlotte. Ma non aveva voluto spezzare del tutto il legame con il mondo delle ferite da trauma, e così, quando entrai nel DMORT, Primrose era già un membro anziano della squadra della Zona Quattro. A più di sessant'anni, Primrose Hobbs era una donna paziente ed efficiente che non si lasciava spaventare da nulla.
«Possiamo verificare una cosa?» domandai, trascinando una sedia accanto alla sua.
«Aspetta un secondo, piccola.» Primrose continuò a digitare, il viso illuminato dal riverbero dello schermo. Poi chiuse il documento e si voltò verso di me.
«Che cos'hai?»
«Un piede sinistro. Sicuramente vecchio. Probabilmente anziano. Forse negroide.»
«Fammi vedere chi ha bisogno di un piede.»
Il DMORT si affida a un pacchetto software chiamato VIP che traccia i progressi dei resti, archivia tutti i dati e facilita il confronto tra le informazioni antemortem e quelle postmortem. Il programma gestisce più di settecentocinquanta elementi identificativi specifici per ciascuna vittima, e archivia anche informazioni digitali come fotografie e radiografie. Per ogni identificazione riuscita, il VIP crea un documento che contiene tutti i parametri utilizzati.
Primrose digitò qualche parola e sullo schermo comparve una tabella. La prima colonna conteneva un elenco di casi ordinati per numero. La donna spostò il cursore di lato fino a una colonna intitolata PARTI CORPOREE NON RECUPERATE, quindi scese verso il basso. Fino a quel momento, risultava che il piede sinistro mancasse a quattro corpi. Primrose si spostò sulla tabella evidenziando i quattro casi.
Il numero 19 era un maschio bianco con età stimata di trent'anni. Il numero 38 era una femmina bianca, con età stimata di vent'anni. Il numero 41 era una femmina africana-americana, con età stimata di venticinque anni. Il numero 52 era la parte inferiore del busto di un maschio africano-americano, con età stimata di quarantacinque anni.
«Potrebbe essere il numero 52» dissi.
Primrose passò alle colonne dell'altezza e del peso. Il signore etichettato con il numero 52 aveva un'altezza approssimativa di un metro e ottantacinque e poteva pesare circa centodieci chili.
«Niente da fare» mi corressi. «Questo è un lottatore di sumo.»
Primrose si appoggiò allo schienale e si tolse gli occhiali. Dalla fronte e dalle tempie spuntava qualche ricciolo brizzolato sfuggito alla crocchia che portava alta sulla testa.
«Ho inserito qualche parte corporea isolata» disse Primrose, e si lasciò cadere gli occhiali, assicurati a una catenella, sul petto. «Per il momento ci sono ancora pochi dati. Ma a mano a mano che i resti verranno esaminati, la situazione migliorerà, anche se forse dovrai aspettare l'esame del DNA.»
«Lo so. Speravo in un po' di fortuna.»
«Sei sicura che sia maschio?»
Le parlai dei risultati ottenuti con le analisi funzionali discriminanti.
«Quindi se ho capito bene il programma prende lo sconosciuto e lo confronta con gruppi di cui hanno già registrato i dati.»
«Esattamente.»
«E questo piede rientra nei valori maschili.»
«Sì.»
«Forse il computer si è sbagliato.»
«Il che è possibile, dato che non sono sicura della razza.»
«È importante?»
«Certo. Ci sono popolazioni più piccole di altre. Prendi i Mbuti.»
Primrose inarcò le sopracciglia brizzolate.
«I Pigmei della foresta pluviale di Ituri» spiegai.
«Ma qui non ci sono Pigmei, dolcezza.»
«No. Ma a bordo potevano esserci degli asiatici. Alcune popolazioni asiatiche sono più piccole di quelle occidentali, perciò tendono ad avere piedi più piccoli.»
«Non come i miei graziosi quarantuno, vero?» e ridendo sollevò un piede con relativo scarponcino.
«La cosa di cui sono sicura è l'età. Questa persona aveva più di cinquant'anni. Molti di più, direi.»
«Controlliamo la lista dei passeggeri.»
Primrose si rimise gli occhiali, digitò qualche parola e la tabella delle informazioni antemortem comparve sullo schermo. Era una griglia simile a quella dei dati postmortem, con la differenza che questa non conteneva valori ma informazioni. Le varie colonne indicavano nome, cognome, data di nascita, gruppo sanguigno, sesso, razza, peso, altezza e una miriade di altre variabili. Primrose cliccò sulla colonna dell'età e chiese al programma di ordinare la tabella secondo quel criterio.
Il volo TransSouth 228 portava solo sei passeggeri al di sopra dei cinquant'anni.
«Quei ragazzi erano troppo giovani perché il Signore li chiamasse accanto a sé.»
«Già» dissi, fissando lo schermo.
Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, poi Primrose spostò il cursore ed entrambe ci avvicinammo.
Quattro maschi. Due femmine. Tutti bianchi.
«Ordiniamo per razza.»
La tabella delle informazioni antemortem conteneva sessantotto bianchi, dieci africani-americani, due ispanici e due asiatici, tra i passeggeri. Gli assistenti di volo e i piloti erano bianchi. Nessuno dei neri superava i quarant'anni. I due asiatici avevano poco più di vent'anni, probabilmente erano studenti. Masako Takaguchi era stata fortunata: il suo cadavere era rimasto intero ed era già stata identificata.
«Credo sia meglio fare in un altro modo. Per il momento puoi inserire un'età stimata di oltre cinquant'anni. E aggiungi che la vittima aveva la gotta.»
«Come il mio ex marito. L'unica cosa umana che aveva quell'uomo.» Un'altra risata, questa volta proprio dal cuore.
«Senti... potrei chiederti un altro favore?»
«Certo, piccola.»
«Puoi guardare Jean Bertrand?»
Primrose trovò la fila corrispondente e spostò il cursore sulla colonna IDENTIFICAZIONE.
Al momento, il corpo di Bertrand non era ancora stato identificato.
«Torno a trovarti quando ho scoperto qualcosa in più su questo piede» dissi prendendo il pacchetto del reperto numero 387.
Tornata al mio tavolo, prelevai dal piede un piccolo campione di osso che subito etichettai. Se si fosse trovato un campione di riferimento, un calcolo renale, lo striscio di un pap-test, un capello o della forfora rimasta sulla spazzola o su un pettine, il test del DNA sarebbe stato utile per stabilire l'identità. In mancanza dei campioni di riferimento, il DNA avrebbe potuto determinare il sesso della vittima o collegare il piede ad altre parti corporee, e un tatuaggio o una corona dentaria avrebbe potuto rimandare a casa la vittima.
Mentre sigillavo la bustina con il campione e scrivevo un appunto sul dossier relativo, mi sentii disturbata da qualcosa. Il computer si stava sbagliando? Per caso la mia impressione che il piede appartenesse a una donna era giusta? Decisamente possibile. Succedeva in continuazione. Ma che dire dell'età? Ero sicura che si trattava delle ossa di una persona anziana, eppure nessuno dei passeggeri a bordo di quell'aereo corrispondeva a quel profilo. C'era qualche patologia diversa dalla gotta che mi aveva tratta in inganno?
E l'avanzato stato di decomposizione?
Prelevai un secondo campione di osso dal punto più alto e intatto della tibia, lo etichettati e lo sigillai in una bustina. Se il piede fosse rimasto non identificato, avrei tentato una stima più precisa dell'età utilizzando le caratteristiche istologiche. Ma per il momento l'analisi microscopica avrebbe dovuto attendere. I vetrini venivano preparati nei laboratori dell'Istituto di medicina legale di Charlotte, e il lavoro arretrato era di proporzioni monumentali.
Infilai il piede nel suo sacchetto, lo riposi sul carrello per il trasporto ai camion frigoriferi e mi accinsi a trascorrere una giornata identica alle quattro precedenti. Ora dopo ora, continuai ad analizzare corpi e parti corporee, frugandone i dettagli più intimi. Non mi accorsi delle persone che si muovevano intorno a me, né del buio che scuriva le finestre sulla nostra testa.
Avevo completamente perso la nozione del tempo, quando alzai lo sguardo e vidi Ryan aggirare una pila di bare di pino in fondo alla caserma dei vigili del fuoco. Camminò fino al mio tavolo, l'espressione era tesa più del solito.
«Come va?» gli domandai abbassandomi la mascherina.
«Ci vorranno dieci anni prima di venire a capo di tutta questa storia.»
Aveva gli occhi scuri, velati da un'ombra, il viso era bianco come la carne che giaceva sul tavolo in mezzo a noi. Il suo cambiamento mi colpì. Poi mi resi conto. Mentre io soffrivo per degli estranei, il dolore di Ryan era per un amico. Lui e Bertrand avevano lavorato insieme per quasi dieci anni.
Avrei voluto dire qualcosa per consolarlo, ma tutto quello che mi venne in mente fu: «Mi dispiace moltissimo per Jean».
Ryan annuì.
«Stai bene?» chiesi con garbo.
I muscoli delle sue guance si irrigidirono, e subito si rilassarono.
Allungai la mano per stringere la sua, ma tutti e due abbassammo lo sguardo sul mio guanto sporco di sangue.
«Ehi, Quincy, vacci piano con le manifestazioni d'affetto.»
La battuta spezzò la tensione.
«Credevo ti fossi messo in tasca il bisturi» dissi afferrando lo strumento.
«Tyrell ha detto che per oggi hai finito.»
«Ma veramente...»
«Sono le otto. Sei qui da tredici ore.»
Guardai l'orologio.
«Vediamoci al tempio dell'amore, così ti aggiorno sullo stato delle indagini.»
La schiena e il collo mi dolevano, e mi sembrava di avere le palpebre piene di sabbia. Appoggiai le mani sui fianchi e mi curvai all'indietro.
«Oppure se vuoi posso aiutarti...» Quando tornai in posizione verticale gli occhi di Ryan si incollarono ai miei e le sue sopracciglia danzarono allusivamente su e giù. «... a rilassarti.»
«Mi sarò addormentata prima ancora di toccare il cuscino.»
«Dovrai pur mangiare qualcosa.»
«Santo cielo, Ryan, ma perché ti preoccupi tanto della mia dieta? Sei peggio di mia madre.»
In quel momento mi accorsi che Tyrell mi stava facendo un cenno con la mano, poi indicò il suo orologio e mi fece il gesto di un coltello che taglia la gola. Io annuii e sollevai il pollice in segno di assenso.
Chiusi i resti nei loro sacchetti e intanto dissi a Ryan che gli avrei permesso di aggiornarmi sulle indagini, e solo quello, poi annotai le mie osservazioni sul modulo del PVD e depositai il tutto sul carrello. Mi tolsi gli abiti da lavoro, mi lavai e uscii.
Quaranta minuti dopo Ryan e io sedevamo nella cucina della High Ridge House davanti a un vassoio di sandwich con il polpettone. Il tenente si era appena lamentato per la terza volta per la mancanza di birra.
«"Perché il bevitore e il goloso impoveriscono"» declamai, scuotendo una bottiglia di ketchup.
«E chi lo dice?»
«Il Libro dei Proverbi, secondo Ruby.»
«"E riterrò alto tradimento bere birra leggera."» La temperatura era scesa e Ryan indossava un maglione da sci color fiordaliso che riprendeva perfettamente quello dei suoi occhi.
«Lo dice Ruby?» domandai.
«Shakespeare. Enrico VI.»
«E che cosa vorresti dire con questo?»
«Che Ruby è dispotica come il re.»
«Raccontami delle indagini.» Diedi un morso al mio sandwich.
«Che cosa vuoi sapere?»
«Le scatole nere sono state recuperate?»
«Sono rosso fuoco. Hai del ketchup sul mento.»
«I registratori di bordo sono stati trovati?» Mi pulii il viso, chiedendomi come un uomo potesse essere allo stesso tempo così attraente e così irritante.
«Sì.»
«Risultato?»
«Sono state inviate al laboratorio di Washington dell'NTSB. Ma ho potuto ascoltare una copia della registrazione del CVR. I peggiori venti minuti della mia vita.»
Lo lasciai proseguire.
«La Federal Aviation Administration al di sotto dei diecimila piedi esige dai suoi piloti la massima concentrazione, perciò per i primi otto minuti la conversazione è rigorosamente tecnica. Dopo però i piloti sono più rilassati, rispondono ai controllori di volo, chiacchierano tra di loro parlando dei figli, del pranzo, delle partite di golf. Di colpo si sente un rumore secco e tutto cambia. I due cominciano ad ansimare e a gridare l'uno contro l'altro.»
Ryan deglutì.
«Sullo sfondo si sentono dei bip, poi qualcosa di simile a un cicalino e poi una specie di sirena. Infine si sente un forte scricchiolio e poi più nulla.»
Da qualche parte una porta sbatté, poi l'acqua prese a scorrere nelle tubature.
«Hai presente come succede quando guardi i documentali sugli animali? Sai già che il leone finirà per sgozzare la gazzella, ma speri fino all'ultimo che non sia così, e poi ti senti malissimo quando succede. È stata una cosa del genere. Senti queste persone che passano dalla normalità all'incubo, sapendo che stanno per morire e che non possono farci assolutamente niente.»
«E invece dall'FDR che cosa è risultato?»
«Per quello ci vorranno settimane, forse anche mesi. Il fatto che il CVR abbia funzionato così a lungo dice qualcosa sulla dinamica dell'incidente, dato che i registratori di bordo smettono di funzionare quando i motori e il generatore vanno fuori uso. Per il momento tutto quello che sappiamo è che l'alimentazione è venuta a mancare di colpo durante un volo apparentemente normale. E questo potrebbe indicare un problema sorto durante il tragitto.»
«Un'esplosione?»
«Per esempio.»
«Dovuta a una bomba o a un guasto meccanico?»
«Sì.»
Lo guardai con aria interrogativa.
«La documentazione relativa alla manutenzione indica che negli ultimi due anni l'aereo aveva avuto problemi trascurabili. Avevano riparato dei pezzi e sostituito un paio di volte una specie di interruttore. Ma secondo gli addetti alla manutenzione si trattava di riparazioni di routine.»
«Ci sono novità riguardo al mitomane?»
«Le chiamate venivano da una cabina di Atlanta. La CNN e l'FBI avevano la registrazione della telefonata e l'esame della voce è già stato fatto.»
Ryan sorseggiò un po' di limonata, fece una smorfia e posò il bicchiere sul tavolo.
«E dalle vostre parti invece che cosa si dice?»
«Che resti tra noi, Ryan. Ti ricordo che le comunicazioni ufficiali possono venire solo da Tyrell.»
Mi fece un «okay» con la mano.
«Stiamo trovando lesioni penetranti e un sacco di fratture alle caviglie e alla metà inferiore delle gambe. Il che non è il tipico risultato di un forte impatto con il suolo.»
Mi venne in mente il piede afflitto dalla gotta e di nuovo provai una certa perplessità. Ryan parve leggermi nel pensiero.
«Adesso che cosa c'è, fiorellino?»
«Vuoi sapere una cosa?»
«Spara.»
«Forse ti sembrerà strano.»